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1 Settembre 2023
9:00

Cosa accadrebbe ai cani se fossero tutti liberi in natura?

Se gli esseri umani scomparissero, scomparirebbero anche i cani? Probabilmente no, ma si trasformerebbero: le razze che conosciamo non esisterebbero più e i cani potrebbero ibridarsi con altri animali geneticamente compatibili, come il lupo.

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Membro del comitato scientifico di Kodami
cane libero

È difficile ipotizzare cosa accadrebbe ai cani se all’improvviso si trovassero a vivere tutti quanti liberi in natura, senza l’interferenza diretta dell’uomo.

Il cane, la specie animale che più ci è vicina da migliaia di anni, è quella che indubbiamente è stata maggiormente influenzata da noi, da molteplici punti di vista. Dove ci sono uomini, in qualche modo, ci sono anche cani. Il loro ventaglio espressivo è tra i più ampi del regno animale, sia da un punto di vista morfologico (pensiamo alle differenze tra un Cane di San Bernardo e un Basset hound, o tra un Cane Lupo Cecoslovacco e un Carlino) che da un punto di vista cognitivo-comportamentale, soprattutto laddove l’interferenza umana – attraverso la selezione artificiale – ha avuto il maggior impatto zootecnico. Pensiamo per esempio alle differenze vocazionali che intercorrono tra un Cane da Pastore Maremmano e un Greyhound, o tra un Beagle e un Siberian husky.

Proveremo comunque a fare delle riflessioni su questo tema assai complesso, senza l’arroganza di possedere la verità in tasca: si tratta di speculazioni e ipotesi esposte con la consapevolezza che è impossibile avere certezze in merito. Una sfida cognitiva interessante, che richiede però di stabilire alcune condizioni per limitare l’infinito ventaglio di possibilità.

Per esempio, i flussi di riflessione potrebbero essere molto differenti se le condizioni di partenza prevedessero un contesto nel quale non esistano più gli esseri umani, come nel libro "I cani senza di noi", edito da Haqihana, a firma di Jessica Pierce e Mark Bekoff, che è stato anche ospite di una puntata di MeetK0dami, il video format di interviste a esperti condotto dalla nostra direttrice Diana Letizia. O, invece, possiamo pensare a un contesto in cui gli esseri umani esistono ma non si prendono alcuna cura dei cani, caso in cui le ipotesi possono essere meno fantasiose in quanto ci sono luoghi nei quali cani e umani vivono vicini ma non interagiscono in modo diretto, o quantomeno nei quali l’influenza umana sui cani è praticamente nulla.

Prima di tutto però facciamo delle brevi considerazioni in merito agli albori della storia dell’uomo e del cane.

Breve storia della domesticazione del cane

Quando uomini e cani si sono incontrati, e dove? Il tema è assai dibattuto in ambito accademico, entrano in campo diverse discipline scientifiche nel tentativo di dare una risposta a queste domande. Si va dalla genetica all’archeologia, dall’antropologia alla zoologia. Negli anni si sono susseguite varie ipotesi a seconda del campo di studi e dell’approccio applicato alla ricerca; quello che sappiamo di per certo però è che tutto, ma proprio tutto quello che conosciamo oggi potrebbe cambiare da un momento all’altro, e certamente il progresso tecnologico-scientifico rappresenta una variabile importante nelle indagini, nonché la nostra possibilità e abilità nel condurre ricerche sul campo.

Se abbracciamo le ultime teorie, possiamo sommariamente dire che uomini e cani convivono da circa 30/35.000 anni; che la domesticazione del cane è avvenuta in un lungo arco di tempo in punti geografici diversi ma, per quanto concerne i progenitori dei cani presenti oggi, si è identificata una zona dell’Asia centrale come culla d’origine; e che il Canis familiaris attualmente esistente condivide un antenato comune con il Canis lupus (il lupo grigio) di cui però non sappiamo ad oggi praticamente nulla.

Certo è che ipotizzare come i nostri avi convivessero a quel tempo con i cani non è cosa da poco. Era un’epoca nella quale più specie umane calpestavano la Terra: sappiamo per certo che noi Sapiens abbiamo vissuto per molte migliaia di anni intrecciando relazioni di vario genere con i Neanderthal, con i quali ci siamo forse ibridati in svariate occasioni, e che è possibile abbiano conosciuto il cane, o proto-cane, anche se forse avevano con esso un rapporto diverso. Queste sono ipotesi a dimostrazione di quanto possa essere difficile provare ad immaginare la quotidianità di quelle persone in un tempo così lontano da noi, non solo da un punto di vista cronologico, ma soprattutto culturale e cognitivo. Di certo però il rapporto uomo-cane nel Paleolitico doveva essere molto differente da come lo concepiamo noi occidentali del XXI secolo.

La sopravvivenza dei cani senza gli esseri umani

Come già accennato, su questo affascinante tema è stato scritto un saggio, nel quale si analizzano dettagliatamente varie possibilità partendo dall’attuale conoscenza del cane di oggi. Quindi, se si intende quel “senza gli esseri umani” come la scomparsa totale del genere umano, così come nel testo di Pierce e Bekoff, allora possiamo azzardare che in brevissimo tempo scomparirebbero tutte quelle tipologie di cani che necessitano di interventi frequenti e tempestivi a causa delle deformità indotte dalla selezione artificiale dell’uomo. Per esempio tutti quei cani che hanno difficoltà ad accoppiarsi, o a partorire naturalmente, che richiedono il supporto medico veterinario per un cesareo, senza dimenticarci qui della così diffusa pratica della fecondazione artificiale.

Per quanto concerne gli altri, bisogna considerare quello che possiamo definire come «primo periodo», ossia quello che accadrebbe nell’immediato dopo la nostra sparizione. Le città sarebbero ancora piene di fonti alimentari, certo, molte di queste però potrebbero risultare fuori dalla portata di un cane: pensiamo a tutti gli appartamenti con frigoriferi pieni che non potranno essere saccheggiati dai cani. Resta il fatto che comunque per un certo lasso di tempo i cani potrebbero sfruttare fonti alimentari d'origine antropica. Le città, proprio a causa di queste risorse, probabilmente si riempirebbero anche di altri animali, per esempio topi e ratti, e una certa quantità di uccelli, che in taluni casi potrebbero rappresentare loro stessi una fonte alimentare come possibili prede dei cani. Ovviamente, in questo caso conterà anche la taglia dei cani, e come viene specificato nel testo succitato, non ve n'è una "migliore" di un’altra, dato che a seconda della situazione, del clima, della conformazione del territorio, in taluni casi cani di taglia grande (che hanno necessità di una maggior quantità di cibo) potrebbero essere svantaggiati rispetto a piccoli cani in grado di intrufolarsi ovunque (e che hanno necessità di meno cibo), in altri contesti le cose potrebbero andare all’opposto, e la taglia grande rappresentare un vantaggio rispetto alla piccola.

C’è da considerare però che altri animali potrebbero avere la meglio sui cani nella competizione alimentare, per esempio i voraci cinghiali: per un piccolo cane è difficile tener testa ad animali del genere, ma a dirla tutta anche per cani di taglia più considerevole. Una breve parentesi, a tal proposito: probabilmente avranno più possibilità di sopravvivere cani più cauti, meno inclini allo scontro con altri cani e altri animali (tipo i cinghiali, gli orsi, i serpenti…) non tanto perché avrebbero la peggio in uno scontro diretto, ma perché alle volte lo scontro causa ferite e danni fisici tali che senza l’aiuto di un medico veterinario causerebbero la morte anche dell’individuo sopravvissuto allo scontro.

Pensiamo poi ai cani che si trovano, a causa nostra, totalmente fuori contesto. Pensiamo per esempio agli Husky che sono stati importati in luoghi totalmente inadatti, Dubai, Catania, Nuova Delhi per citarne alcuni. Luoghi dove le loro caratteristiche morfologiche gli renderebbero particolarmente difficile sopravvivere a causa delle condizioni climatiche.
Per quanto concerne alcune speculazioni in merito alle caratteristiche comportamentali, quei cani che avranno una maggior flessibilità cognitiva e relazionale riusciranno ad unirsi in gruppi, o bande, aumentando la loro possibilità di sopravvivere, rispetto ai cani incapaci di intrecciare relazioni con i propri conspecifici. E questo non ha molto a che fare con la tipologia, o razza d’appartenenza, ma più con le caratteristiche soggettive di uno specifico cane, anche se, possiamo azzardare, cani con alte motivazioni competitive, come per esempio i terrier di tipo bull, avrebbero più difficoltà ad integrarsi in un gruppo.

Ovviamente, parlando del «primo periodo», conterà l’esperienza che ogni singolo cane ha avuto l’opportunità di fare quando ancora viveva sotto il controllo degli umani, e quale grado di dipendenza abbia sviluppato. Ma qui alziamo le mani, sappiamo di cani che, abbandonati dall’oggi al domani, dopo aver vissuto per anni in un comodo appartamento, nutriti, accuditi, e tutto il resto, si sono adattati alla “vita di strada” molto rapidamente unendosi magari ad un gruppo presente sul territorio. Questo per dire che le possibilità di adattamento e la flessibilità cognitiva del cane è qualcosa che spesso ci lascia basiti.

Certamente una cosa accadrebbe in brevissimo tempo, nel giro addirittura di una sola generazione, o poco più: le cosiddette razze scomparirebbero. Non ci dilungheremo troppo sull’ovvietà di questa considerazione, basti pensare che una volta che i cani fossero liberi di scegliere con chi accoppiarsi, la possibilità che due cani della medesima razza lo facciano sarebbe molto bassa, a meno che, naturalmente, non vi siano dei vincoli ambientali che li costringano in una zona molto circoscritta. Ma in tal caso, senza la possibilità di uscire da una zona specifica, diciamo per esempio l’area cintata di un allevamento, presto morirebbero tutti una volta consumate le risorse alimentari (non parliamo nemmeno della possibilità di reperire acqua, che non è certo un fattore secondario). Il punto è che i cani non sono razzisti, ossia le loro scelte, per quanto concerne l’accoppiamento, non sono influenzate dai parametri dentro i quali noi li costringiamo. E se pensate che, per esempio, i vostri amati Barboncini odiano cani diversi da loro, questo ha a che fare con la socializzazione, ma in questa ipotetica situazione nella quale ci stiamo aggirando, tutte queste ritrosie probabilmente crollerebbero al primo calore di una femmina di qualunque altra razza!

Il punto è, cosa accadrebbe dopo un certo lasso di tempo dalla scomparsa degli umani, quando le risorse lasciate dalla nostra società si fossero esaurite? Non c’è dubbio che la popolazione complessiva dei cani diminuirebbe, ma possiamo chiederci se la fine dell’uomo decreterebbe la fine anche del cane in un lasso di tempo relativamente breve, diciamo una ventina d’anni?

L’adattamento dei cani alla vita selvatica

Come riportato nel testo di cui sopra, che citiamo continuamente come riferimento perché forse l’unico che ha trattato questo tema in modo accurato, la statistica attuale parla di circa 180 milioni di cani che possiamo definire "di casa" contro i 720 milioni di cani che attualmente vivono "liberi". Il termine «liberi» indica cani che non dipendono direttamente dall’uomo ma che comunque sfruttano la nicchia ecologica rappresentata da noi in modo indipendente. Moltissimi di questi cani infatti nel periodo di socializzazione che va dalla terza settimana all’ottava non hanno conosciuto l’uomo, o lo hanno conosciuto come “predatore”, ossia qualcosa da cui tenersi ben lontani. E vivono comunque benissimo, anzi, prosperano.

Ci sono anche intere popolazioni di cani che non sfruttano nemmeno le risorse della nicchia umana e conducono vite “selvatiche” tenendosi ben alla larga dai centri abitati. Quindi, se pensavamo che il cane fosse una specie animale che per forza necessita del supporto umano per vivere, beh, non è così, soprattutto se allarghiamo lo sguardo al di là delle restrizioni proprie del mondo occidentale, nel quale la possibilità di osservare e studiare il Canis familiaris in un contesto totalmente naturale (si passi l’uso del termine “naturale”, intendendo qui lontano dall’influenza diretta dell’uomo) sono praticamente inesistenti. Vero è che, probabilmente, il numero di cani totalmente selvatici è alquanto ridotto: indubbiamente le nostre due specie hanno molto in comune e di conseguenza, come detto, dove ci sono uomini ci sono cani, e viceversa. Ma nell’ipotesi della nostra scomparsa, questa causerebbe anche la scomparsa del cane?

Probabilmente la scomparsa no, ma la trasformazione sì. Probabilmente dopo un certo lasso di tempo si verificherebbe una certa omogeneità negli individui di un determinato territorio, dal punto di vista morfologico e comportamentale. La natura predilige la capacità d’adattamento, la flessibilità, e il meticciamento: il concetto di “purezza” è un costrutto esclusivamente umano. È molto probabile che i cani, potendolo fare, si ibriderebbero anche con altri canidi geneticamente compatibili, e il successo di questi incroci sarà decretato non già dalla funzionalità zootecnica ma dal ben più importante successo adattativo al contesto ambientale, che non dobbiamo dimenticare include non solo le caratteristiche climatiche e morfologiche di un territorio, ma anche la presenza di altri animali, prede e predatori, parassiti, virus e batteri.

Se in un primo periodo questi elementi causerebbero una moria soprattutto per i “cani di casa”, poi si arriverebbe alla comparsa di tipologie adatte, a livello locale. Pierce e Bekoff parlano di "landrace" (letteralmente "razza del territorio"). Citiamo testualmente:

Si tratta di animali geneticamente connessi e specifici di una regione geografica, dove spesso sono impiegati in pratiche agricole. Le landrace sono ben adattate alle condizioni ambientali locali, tra cui altitudine, clima, suolo, abbondanza o scarsità di acqua. Nonostante una certa somiglianza fisica, i cani di una determinata landrace [attuali] non rispondono a standard di razza e non sono registrati negli albi ufficiali. Per capire la differenza tra landrace e razze, si può dire che le prime sono state allevate [nel nostro caso non si parlerebbe di «allevamento» ma di adattamento, dove il selettore è dunque l’ambiente] per resistere in determinate condizioni ambientali, mentre le seconde per scopi del tutto umani, come puntare le prede, stanare i ratti o avere un folto mantello.

Insomma, possiamo dedurre che scomparirebbero le specializzazioni e gli sbilanciamenti motivazionali nelle popolazioni di cani, che invece tenderebbero ad un maggior equilibrio e omogeneità nelle varie popolazioni, laddove sopravvive il più adatto (Darwin docet) e il più adatto ha un maggior successo riproduttivo.

Ipotizziamo uno scenario

A differenza di altri canidi, i cani hanno una dieta piuttosto variabile, sono quasi onnivori, mentre per esempio i lupi sono carnivori più stretti, e questo rappresenterebbe un vantaggio nel procacciarsi il cibo. Come riportato nel testo “I cani senza di noi” questa loro caratteristica gli consentirebbe di prosperare con piani alimentari flessibili che possono comprendere carne fresca, carcasse lasciate, per esempio, da altri predatori, insetti, piante e frutti. Tutto sarà relativo all’ambiente e alla competizione con altre specie animali.

È assolutamente possibile che particolari gruppi si specializzino, per esempio che cani che vivono sulle coste o nei pressi di laghi e corsi d’acqua importanti, diventino abili prevalentemente nella cattura di pesci, o nella predazione di particolari uccelli molto presenti in un certo habitat, pur mantenendo comunque una grande flessibilità. In fondo i cani sono opportunisti e hanno grandi facoltà cognitive, un potente strumento che aumenta molto le loro chances, soprattutto considerando il fatto che si costituirebbero in gruppi più o meno eterogenei, aumentando esponenzialmente le variabili a loro vantaggio.

C’è anche un tema, oggi al quanto scottante, che ha a che fare con l’ibridazione tra specie differenti, per esempio tra cani e lupi grigi. Ad oggi questo fenomeno è assodato, e bisogna considerare che generalmente non è un fatto né voluto né incentivato dall’uomo. Ma in nostra assenza è probabile che compaiano più popolazioni di canidi figli del meticciamento tra cani e lupi, cosa che ovviamente succede da che esistono cani e lupi, e questa evenienza, in passato, era certamente più frequente di quanto non lo sia oggi nei territori abitati da entrambe le specie. Ebbene, questo fatto, con buona probabilità, non decreterebbe né la scomparsa del Canis familiaris né quella del Canis lupus, che non dobbiamo dimenticare ha come maggior “predatore” l’uomo, che lo ha portato più volte sull’orlo dell’estinzione. Scomparsi noi sarebbe ristabilito l’equilibrio in modo naturale e il numero di Canis lupus, è logico pensarlo, aumenterebbe in funzione della disponibilità di prede. Se questi incroci poi dovessero sopravvivere e prosperare, sarebbe perché sono «adatti», e questo potrebbe portare ad una nuova sfida ecologica, nella quale tutto un ecosistema dovrebbe riadattarsi via via per la presenza di questo predatore, e così via.

Ribadiamo, in conclusione, che nessuno possiede la sfera di cristallo che gli consente di vedere il futuro, men che meno noi. Quanto detto è pura speculazione, anche se poggia su solide basi. Ci sono però degli elementi importanti che possono emergere da queste riflessioni, nello sforzo creativo di ipotizzare scenari futuri. Una tra tutte, e ci rivolgiamo ancora alla voce di chi è certamente più autorevole di noi, è la seguente: nel suo studio esaustivo sul comportamento dei cani liberi Societies of Wolves and Free-rangig Dogs, Stephen Spotte, studioso e autore americano, osserva: "Il fatto che un fenotipo sociale non venga espresso in cattività non dimostra che sia scomparso; ecco perché i cani liberi sono soggetti così interessanti".

Questo ci riporta alla considerazione che le nostre ipotesi si basano, anche in questo frangente, su quello che sappiamo oggi sul cane: però gli studi sul comportamento e la psicologia di questa specie sono ancora pochi e certamente non esaustivi, benché in forte aumento negli ultimi decenni. Ma il tempo stringe perché queste importanti e affascinanti fonti di scoperta stanno via via scomparendo a causa nostra, soprattutto perché non vediamo l’immenso valore dei cani liberi – così come spesso non lo vediamo per nessun’altra specie animale, e alle volte nemmeno per quanto riguarda i nostri conspecifici di etnie e culture differenti dalla nostra – e li percepiamo come poveri derelitti, pezzenti accattoni e, soprattutto, un problema da estinguere.

Cosa accadrebbe agli uomini senza i cani?

Per chiudere questo articolo assolutamente non esaustivo dell’argomento, abbiamo considerato un’altra domanda che forse sarebbe interessante approfondire, ossia, dopo essersi chiesti cosa accadrebbe al cane senza di noi si potrebbe affrontare il tema opposto: cosa accadrebbe all’uomo senza il cane?

Questo argomento lo si potrebbe chiudere brevemente, almeno secondo l’autorevole parere degli studiosi Lorna e Ray Coppinger, così come hanno scritto nel loro libro Dogs (Haqihana, 2012): per noi non ci sarebbe alcuna differenza, riferendosi all’uomo del XXI secolo. Forse, e sottolineiamo il “forse”, ci sono però elementi che i coniugi non hanno preso in considerazione, livelli più sottili del rapporto uomo-cane di oggi: un’ipotesi che lasciamo sul tavolo come un possibile spunto di riflessione. Come noi abbiamo influenzato il cane, a partire da 30.000 anni fa, e continuiamo ad influenzarlo a vari livelli, non possiamo pensare che lui non lo abbia fatto con noi, e che magari continui a farlo.

Forse è difficile accorgersi di un processo evolutivo quando si è coinvolti in esso, così come alle volte ci è difficile comprendere il valore di qualcosa fino a che non si rischia di perderla. Ebbene, siamo dunque nell’epoca in cui rischiamo di perdere il cane ancor prima di averlo compreso a fondo?

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Luca Spennacchio
Istruttore cinofilo CZ
Ho iniziato come volontario in un canile all’età di 13 anni. Ho studiato i principi dell’approccio cognitivo zooantropologico nel 2002; sono docente presso diverse scuole di formazione e master universitari. Sono autore di diversi saggi.
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