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21 Giugno 2021
13:00

Metella e la sua famiglia poco convenzionale

L’abbandono degli animali è un fenomeno complesso, le cui cause sarebbero da ricercare in molteplici fattori, culturali e sociali prima di tutto, ma anche in una legislazione carente dal punto di vista del benessere animale. La storia di Metella, la cagnetta adottata dalla mia famiglia poco convenzionale.

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Istruttrice cinofila
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L’abbandono degli animali è un fenomeno complesso, le cui cause sarebbero da ricercare in molteplici fattori culturali e sociali prima di tutto, in termini di scarsa conoscenza e supporto per chi decide di avere degli animali da compagnia e in ultimo, non per importanza, a causa di una legislazione carente dal punto di vista del benessere animale.

Le mie giornate scorrevano tranquille in quella coreografia autunnale di paesaggi abruzzesi, tra gli impegni universitari alla facoltà di veterinaria e un figlio da crescere. Mi ero allontanata dalla Toscana in cerca di una sosta: una sorta di anno sabbatico per fare chiarezza nella mia testa e nel mio cuore su quale fosse la strada giusta da proseguire con la mia famiglia. E la mia famiglia all’attivo aveva già diversi gatti, un bimbo e il setter Ettore. Avevo ritrovato vecchi amici e in facoltà ne avevo incontrati di nuovi ma la mia vita sociale virava sempre più verso la natura, lo stare in pace nel silenzio del verde, in mezzo agli unici suoni che mi sembravano mettere a tacere la frenesia della città e della vita. Avevo avuto quell’incontro col mio cagnone che aveva letteralmente sconvolto la mia esistenza: le sue paure, le settimane per avvicinarlo e togliergli la catena a cui era stato attaccato, le passeggiate insieme e la libertà che avevano costruito giorno dopo giorno, la nostra lunga amicizia durata sedici anni. Insomma: di cose da fare fra lezioni e un figlio di due anni ne avevo di certo e lungi da me l’idea di impegnarmi nell’adozione di un altro cane.

Eppure, credo che la vita ci metta in qualche modo di fronte a dei bivi, come delle strade obbligate che devono essere poi prese e che le cose, semplicemente accadano, perché la via da imboccare può essere solo quella e non certo un’altra.

Già balenava nella mia testa il costante pensiero di quanto fosse bello conoscere l’apparato scheletrico di un cavallo o quanti litri di latte possa produrre una vacca chevrolet, ma vuoi mettere capire cosa passa nella testa di un cane? Ben presto sapevo che questa insoddisfazione costante dentro di me, che alberga un po’ da sempre e in ogni campo della mia vita, mi avrebbe portato a non diventare un veterinario ma a cercare altre strade, altri modi di capire e altre ipotesi sul da farsi nonostante la fatica della strada fatta fino ad allora. Credo che Metella, la mia seconda cagnetta, sia arrivata esattamente per questo motivo: per mostrarmi che ero in grado di dare un aiuto, che sarei potuta arrivare a isolarmi dal giudizio verso gli altri, che avrei dovuto intraprendere una professione di supporto ma che non era quella del veterinario. Certo, alla mia famiglia sarebbe sicuramente piaciuto che io avessi un lavoro socialmente riconosciuto come quello del medico veterinario perchè, parliamoci chiaro, tanti di noi che sono istruttori ancora si sentono dire: “E cosa fai quindi esattamente?”. Ma come dico spesso, con un sorriso un po’ amaro: “E’ uno sporco lavoro ma qualcuno dovrà pur farlo! ”.

Metella: una famiglia nella mia famiglia

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Metella

Quel pomeriggio me lo ricordo bene, molto bene: le giornate si accorciavano e il pomeriggio bisognava rientrare prima che iniziava a far freddo. Erano un paio di giorni che Ettore rimaneva via nelle sue girate pomeridiane, più di quello che solitamente faceva. Non mi preoccupavo di solito, anche se sapevo che in qualche guaio si sarebbe potuto cacciare da bravo setter dietro qualche animale o a sfidare a singolar tenzone, come era accaduto qualche mese prima, un paio di cani maschi dei pastori vicini ( e non era andata benissimo per lui). Quel pomeriggio, però, non fece ritorno e la sera ero piuttosto preoccupata. Continuavo a ripetermi che era stato un cane vagante per tanto tempo e che sarebbe sicuro rientrato tutto intero. Con mio grande stupore, l’indomani mattina lo trovai fuori dalla porta di casa con un amico, anzi con un’amica come subito capì guardandola bene: la cagnetta in questione, ahimè, dalla forma della sua pancia stava ben presto per diventare madre. Ma più che “ben presto” avrei dovuto immaginare… di lì a poche ore. Però avevo degli impegni e dovevo sbrigarmi: mio figlio era da portare in asilo, io sarei arrivata in facoltà in ritardo come sempre e i gatti dovevano ancora mangiare. Le feci una carezza veloce, le dissi che ero felice di vedere che era diventata amica di quel girellone del mio Setter e le promisi che mi sarei occupata di lei nel primo pomeriggio. Solo che al mio ritorno, “lei” erano diventati “loro” e aveva letteralmente partorito sullo zerbino del porticato di casa. Tre microscopici cuccioli: purtroppo due di loro non erano più vivi e uno era già intento a poppare, al sicuro del suo caldo pelo.

Metella, che mi sembrava un nome molto azzeccato visto che era lo stesso della bicicletta di Vasco Pratolini nel romanzo che stavo leggendo all’epoca,era una cagnolina da caccia probabilmente anche di razza, con grandi orecchie penzolanti, senza coda, un mantello arruffato dal girovagare ma folto e di un bellissimo bianco e marrone. Mi sembrava una madre premurosa e che ospitai volentieri dentro casa finché il suo piccolo non fosse stato in grado di essere adottato. Io non potevo tenerlo e a lei anche avrei voluto trovare una sistemazione, ma ci avrei pensato col tempo. Adesso era importante che quel cucciolo rimasto ce la facesse e che lei si sentisse al sicuro. Poi, i miei dubbi sulla paternità un po’ iniziavo ad averli via via che il cucciolo cresceva di peso… diciamo che aveva un non so che di familiare col mio Ettore. Più passavano i giorni e più che un aiuto a questa cagna, avevo l’impressione di aver fatto un ricongiungimento familiare.

Storia di un ordinario abbandono

Dopo qualche settimana di confidenza, notai che Metella aveva un tatuaggio scolorito all’interno dell’orecchio. Mi ero fatta prestare già il lettore di microchip dal veterinario di paese ma non risultava averne uno. Il tatuaggio era illeggibile, sarebbero potute essere tantissime le ipotesi di quelle lettere e numeri stampati nel suo orecchio. Un giorno mi chiamò il veterinario del paese a cui avevo chiesto, come molti a cui avevo raccontato il  “lieto evento”, di aiutarmi a cercar loro una buona sistemazione: mi disse che risultava presente nel suo database una Springer Spaniel femmina, mantello color fegato, con un tatuaggio che poteva essere il suo. Mi disse anche che aveva chiamato l’ipotetica persona che risultava come riferimento umano per fare una verifica e che la cagna rispondeva al nome di Stellina. La storia era un po’ complicata perché quest’uomo aveva ceduto la cagna in questione ad un altro signore quando aveva due anni perché pare non se ne potesse occupare e che questa seconda persona, poi, l’aveva smarrita anni addietro senza mai più ritrovarla. Dubitava fosse lei perché avrebbe avuto a oggi dodici anni e non poteva essere viva. C’era solo un modo per saperlo e aveva detto al veterinario di controllare sotto il mento una cicatrice nascosta dal pelo. Inutile dirvi che la cagna stesa a sonnecchiare sotto il mio divano era quella Stellina e che la cicatrice c’era eccome.

Da Stellina a Metella: parte della mia famiglia, simbolo di tanti altri che non hanno avuto la possibilità di vivere una vita dignitosa

Cosa avrei dovuto fare io? Parlai con l’anziano che aveva comprato la mia Metella e sì: era stata comprata per pochi spiccioli ma lui poi non era più andato a caccia e l’aveva regalata. Parlai anche con la seconda persona che l’aveva tenuta e mi disse che ormai erano passati secoli, che potevo tenerla, che un cane se decide di scappare «vuol dire che non sta bene dove sta» e che lui non aveva colpa. Ma i cani non scappano: i cani si allontanano da situazioni malsane dove non si sentono integrati, per cercare un posto altrove. Tecnicamente, gli spiegai che quello era stato un abbandono prima ancora che diventasse tale e che forse lui considerava una fortuna che fossero passati dieci anni e Metella fosse ancora viva, ma che un altro cane, avrebbe potuto fare una fine diversa. Morire di stenti, morire investito, morire aggredito da altri cani. Durante la telefonata, fissavo quella madre stesa a terra allattare con calma e devozione e mi ripetevo dentro, come un mantra, che non aveva senso alla fine giudicare né arrabbiarmi: aveva senso solo fare il passo necessario dal punto di vista della burocrazia e darle la vita che le spettava, rendendole dignità. Quella sera mi interrogai su come Metella avesse fatto a girovagare per quelle campagne per dieci lunghi anni, a trovare cibo, a sopravvivere: provai a fare un conto di quante volte avesse potuto partorire in quegli anni e se aveva avuto la fortuna di trovare uno zerbino e un porticato come da me o no.

Metella e il suo cucciolo e Ettore tornarono presto in Toscana con me e il resto della famiglia. Lei ha visto crescere mio figlio, nascere la mia seconda. Ha cambiato con me case e città, mi ha visto diventare un istruttrice cinofila e studiare anche di notte: ha conosciuto il calore di una famiglia poco convenzionale ed è vissuta 19 anni, ancora sette da quella mattina in cui era arrivata sul mio porticato. Ci sono abbandoni che si perpetrano nel tempo per incuria, ignoranza, menefreghismo. Invertire questa rotta è un dovere civile e morale di ciascuno di noi. Per rendere dignità a ogni Stellina lì fuori.

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