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7 Giugno 2022
15:58

Leone morde l’inserviente dalla gabbia. L’etologa: «La cattività negli zoo aumenta l’aggressività»

Al Jamaica Zoo, un leone ha staccato con un morso un dito ad un inserviente che aveva infilato una mano tra le sbarre della gabbia, confermando le teorie che vedono nella cattività un acceleratore dell'aggressività a causa dello stress.

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Giornalista
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La gabbia e il leone nella gabbia. La mano che cerca di toccarlo attraverso le maglie della rete di protezione e il felino che spalanca le fauci cercando di afferrare la mano e strapparla via.

Come in un film già visto, se non fosse che è successo davvero ancora una volta pochi giorni fa e l’esito non è stato dei più felici. Un dito strappato all’inserviente del Jamaica Zoo di Lacovia, che ha tentato di coinvolgere l’animale prigioniero in un “gioco” che, con ogni probabilità aveva l’obiettivo di portare a casa una mancia concessa dai visitatori pronti a immortalare l’incontro ravvicinato con una flash e una foto ricordo.

Perché nello zoo jamaicano, come si legge sul loro sito, toccare gli animali non deve sembrare così inopportuno e diseducativo: «Abbiamo anche un'area per accarezzare, in cui i nostri visitatori hanno la possibilità di scattare foto con alcuni dei nostri animali più piccoli, come il nostro serpente pitone palla il cui nome è Peter e Lizzy, che è un'iguana verde baby, per non parlare del nostro coccodrillo da compagnia "Sof"».

Gli animali e la libertà: la cronaca racconta che confinarli non fa loro del bene

Che sia uno zoo, con scopi conservazionistici o meno poco importa, che sia un acquario, un circo o un delfinario cambia poco. Gli animali in prigionia proprio non ci vogliono stare. Se ci stanno, ci stanno male e fanno di tutto per manifestare questo malessere.

Solo pochi mesi fa, a fine marzo, a Londra un esemplare femmina di caracara crestato (Caracara plancus), un uccello rapace americano, è scappato dallo zoo ed è stato avvistato a 17 chilometri di distanza.

Ma le storie di tentate fughe, fughe appena accennate, fughe riuscite e tristi epiloghi di uccisioni o rientri forzati tra le sbarre, sono innumerevoli: dall’ippopotamo che riuscì ad evadere da uno zoo del Montenegro, galleggiando fuori dal suo recinto grazie alle inondazioni, alla lupa di Los Angeles che, nel 1979, fuggi dallo zoo dove era prigioniera e si andò a nascondere a Griffith Park per un mese.

Goldie, la famosa aquila dorata dello zoo di Londra, nel ’65 evase e per dieci giorni divenne la star di Regent’s Park dove accorsero in 5000 per assistere alla sua cattura. E solo un paio di mesi fa, a fine aprile, dieci daini hanno sfruttato un buco della rete di recinzione e sono fuggiti dallo Zoosafari di Fasano in Puglia. Tutti riacciuffati e riportati dentro. Ce ne sono molte altre, di storie, ma la morale è sempre la stessa: chi può scappa, fosse anche per un giorno o per un’ora, l’istinto alla libertà è il più forte e non conosce ostacoli.

Cattività e stress: gli scienziati sono tutti d’accordo

Che la cattività produca stress e che questo stress possa interferire nei comportamenti degli animali prigionieri è ormai un dato di fatto provato scientificamente. «Un contesto sterile, limitante e alterato quale risulta ad esempio la cattività, rappresenta una condizione di stress – spiega Andrea Casini, responsabile area animali esotici della LAV – Come affermato da numerosi studi, quali quelli di Sapolsky (2000), Moberg (2000) e Wielebnowski (2003), se un evento stressante persiste, i meccanismi di risposta fisiologici che si attivano per “fronteggiare” tale circostanza risultano sollecitati per lungo tempo, generando una condizione di stress cronico che può compromettere la salute di un individuo in termini fisiologici, cognitivi e sociali, fino ad indebolirne il sistema immunitario, e a condizionarne il comportamento, con lo sviluppo anche di gravi patologie comportamentali».

Il comportamento di chi vive a lungo dentro ad una gabbia quindi è destinato a trasformarsi ed ad assumere caratteristiche nuove: «Animali in cattività possono presentare comportamenti stereotipati (comportamenti ripetitivi privi di funzione), come camminare su e giù nelle gabbie, riconosciuta da Clubb e Mason (2003) come una stereotipia che colpisce comunemente molti carnivori, o il continuo sfregamento del mento delle orche sui vetri delle vasche, citato da Rose e Parsons (2019), ma anche autolesionismo, attività sessuali e cure parentali anomale, come osservato ad esempio da Mallapur e Choudhury (2003) in primati non umani, e maggior aggressività e tensioni sociali» conclude Casini.

Aggressività e prigionia sono in relazione?

Maggior aggressività e tensioni sociali potrebbero quindi essere alla base del comportamento del leone del Jamaica Zoo che ha letteralmente staccato un dito con un morso all’inserviente? Infilare superficialmente la mano fra le sbarre, come mostra chiaramente il video girato dagli stessi turisti, può aver scatenato la sua aggressività sopita? La cattività aumenta l’aggressività?

«Di fatto parliamo di un grande carnivoro, selvatico, quindi un animale naturalmente non propenso a relazionarsi con la specie umana – spiega Federica Pirrone, etologa e membro del comitato scientifico di Kodami – Non credo che in libertà ci si potesse attendere un comportamento molto diverso, se si fosse trovato in stretta prossimità con una persona, in un momento di estrema reattività come in quella circostanza». Ciò detto anche l’etologa sottolinea la possibilità di un aumento di aggressività. «La reclusione può causare negli animali pressoché di tutte le specie, compresa quella umana, un aumento dell'aggressività, in maniera indiretta, ad esempio favorendo lo sviluppo di stress e frustrazione, oppure in presenza di specifici fattori sociali, come la convivenza stretta tra maschi nei topi».

Serragli, zoo e bioparchi: cosa è cambiato nei secoli

Gli zoo, o bioparchi, non sono certamente più i serragli dell’antichità, nati per esporre animali esotici spesso bottino di guerra. Gli imperatori romani inaugurarono l’abitudine di far sfilare leoni e elefanti predati nelle guerre in Africa, mentre ad Alessandria d’Egitto per la prima volta gli animali selvatici vennero esposti per essere osservati dai visitatori. Luigi XIV, il re sole dei francesi, fece costruire a Versailles un serraglio così imponente da rappresentare in tutto e per tutto il potere del re.

L’attuale percezione dello zoo e dell’esposizione degli animali in epoca moderna è molto cambiata. E, secondo la Direttiva europea del ’92 «i giardini zoologici hanno un “importante ruolo nell'ambito della conservazione delle specie, dell'istruzione pubblica e della ricerca scientifica, oltre che alla tutela del benessere animale». Non sempre funziona così, anzi. Il report del 2011 The Eu Zoo Inquiy lo dimostra perfettamente. Malgrado i miglioramenti, però, ogni volta la cronaca ci riporta impietosamente alla stessa riflessione: lo zoo ha ancora senso?

Gli arricchimenti ambientali possono fare la differenza

Osservazione, studio e ricerca sarebbe quindi alla base dell’attuale accettazione degli zoo nella società contemporanea, affiancati dal ruolo che gli zoo dovrebbero avere nella conservazione delle specie a rischio. Ma tutto sempre sotto l’egida imprescindibile del benessere animale che prevede anche la presenza importante di arricchimenti ambientali.

«La presenza di arricchimenti ambientali ben fatti e ben proposti diventa in questo senso imprescindibile – spiega la Pirrone –  perché riduce in modo netto lo stress e la frustrazione negli animali confinati, contribuendo ad abbassare in qualche caso anche i livelli di aggressività».

Per gli studiosi, da un punto di vista etologico, ha senso osservare i comportamenti di animali in gabbia per tranne valutazioni comportamentali? «Può avere senso, con alcune specie, per alcuni comportamenti, ma a patto che si ricreino condizioni sovrapponibili, o molto vicine, a quelle naturali. Questo non è per nulla facile, oltre ad essere oltremodo dispendioso, e comunque non sempre gli animali agiscono nello stesso modo in libertà e in ambiente controllato».

La cattività in uno zoo può avere ancora un senso?

La prigionia degli animali nello zoo, quindi, sarebbe giustificata per scopi scientifici: conservazione, studio e ricerca. Sempre però che questo accada realmente e che invece la loro prigionia non si riduca ad un’esposizione commerciale. «Se la finalità è la conservazione, può avere ancora un senso – conclude la Pirrone. – Ha molto senso invece osservare gli animali che, oggi come oggi, loro malgrado forse, vivono in cattività per comprendere meglio il loro stato psicofisico, per mettere a punto idonei protocolli di arricchimento e, quindi, in definitiva, per trovare le soluzioni più efficaci per migliorare il loro benessere e la loro qualità della vita».

Anche se la soluzione migliore appare sempre, nel loro vantaggio, quella di sostenere santuari e centri di recupero che lavorino con gli animali nei loro territori di provenienza ed evitino in tutti i modi la spettacolarizzazione della loro prigionia. Creando una reale empatia e senso di rispetto per l'animale incontrato nel suo contesto originale e non deportato in un luogo da cui è avulso e che, in molti casi, soffre per temperature o per condizioni di vita.

NB: Kodami non pubblica il video del leone e dell'uomo perché come sempre pensiamo che simili immagini ledano la dignità degli individui e nulla aggiungano al contenuto dell'articolo.

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Maria Grazia Filippi
Giornalista
Scrivo da sempre, ma scrivere di animali e del loro mondo è la cosa più bella. Sono laureata in lettere, giornalista professionista e fondatrice del progetto La scimmia Viaggiante dedicato a tutti gli animali che vogliamo incontrare e conoscere nei luoghi dove vivono, liberi.
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