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9 Febbraio 2021
16:00

“Lo spettacolo di Bryan che sboccia”: la descrizione di come nasce e cresce la relazione tra una donna e un cane adottato

La scrittrice Rosella Postorino, vincitrice nel 2018 del "Premio Campiello" con il romanzo "Le assaggiatrici", ha raccontato com'è iniziata la sua nuova vita insieme a Bryan, che ha adottato attraverso i Social network. Dalle sue parole emerge un racconto delicato e intenso di come si crea una relazione con cane.

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"Bryan non è il mio primo cane, ma con lui mi è parso di dover imparare da capo". Inizia così un articolo pubblicato su 7Corriere, magazine del Corriere della Sera, che descrive con enorme delicatezza l'importanza del rispetto dei tempi quando ha inizio la relazione tra un essere umano e un cane. L'autrice è la scrittrice Rosella Postorino, vincitrice nel 2018 del "Premio Campiello" e di altri importanti premi letterari con il romanzo "Le assaggiatrici". La sua storia personale di come sia iniziata la nuova vita insieme a Bryan, che ha adottato dopo aver visto un appello su Facebook, viene narrata con rara sensibilità, attraversando le tappe fondamentali di un viaggio verso una conoscenza reciproca e con quell'incipit che da subito mette in evidenza un dato di fatto: la presa di coscienza che ogni cane è un individuo a sé.

Prima di tutto ecco il post completo e poi un'analisi del perché le parole di Rosella Postorino sono così illuminanti per chiunque voglia adottare un cane o per chiunque ha vissuto questa esperienza e che, probabilmente, potrà ritrovare se stesso e il proprio compagno di vita tra le pieghe della sua scrittura.

Bryan non è il mio primo cane, ma con lui mi è parso di dover imparare da capo.
L’abbiamo trovato su Facebook, a ottobre: la foto lo ritraeva a mollo in una bacinella d’acqua, l’espressione smarrita. Era buffo, col muso di tanti colori e le orecchie arruffate, ma pure triste. Desideravo un cane per vincere la solitudine che il 2020 mi aveva inflitto, ne immaginavo uno vivace, chiassoso, irruento, la lingua sempre fuori, e Bryan non sembrava così. Però era un cane adulto, rischiava di rimanere in rifugio per sempre: se nessuno l’aveva voluto, diceva il mio compagno, ora ci saremmo stati noi.
Bloccati un mese e mezzo in Liguria per questioni familiari, quasi ogni giorno parlavamo di lui, sognavamo il momento nel quale, tornati a Roma, saremmo andati a prenderlo: l’incubo che stavamo affrontando prima o poi avrebbe avuto fine, e sarebbe stato Bryan a sancirla.
L’abbiamo preso un sabato a Cassino, avevamo in programma una passeggiata a Gaeta, ma lui non muoveva un passo, tanto era spaventato. In auto ha vomitato due volte; a casa, non si è staccato dalla porta d’ingresso per l’intera notte, non ha bevuto né mangiato. Per due giorni non ha neanche fatto i bisogni. Dovevamo tenerlo in braccio per salire o scendere le scale, il guinzaglio lo paralizzava. Ma perché il mio cane dev’essere emotivo, mi disperavo, perché non me n’è capitato uno superficiale?
Non era solo che mi sentivo rifiutata da lui. Non era nemmeno l’impegno che richiedeva, l’avevo messo in conto. Ce l’avevo con Bryan perché era fragile e nella sua fragilità rivedevo la mia. La paura di ciò che è ignoto, la difficoltà a fidarsi degli altri, l’emozione che agisce sul corpo. Rivedevo la parte di me che non accetto, l’avevo riconosciuta fin dalla foto. Eppure avevo scelto proprio lui, mi ero fatta quattro ore di viaggio per portarlo via con me.
I primi giorni, accarezzandolo, gli domandavo a bassa voce se era contento di averci incontrati. Volevo convincerlo che valeva la pena allontanarsi dal cuscino, scoprire il mondo, farsi amare da noi, ma non sapevo come. Poi un mattino si è alzato e ha esplorato la casa, e io l’ho spiato col fiato trattenuto. Ho riso di gioia per ogni suo progresso, la prima passeggiata, la prima corsa sull’erba, quando ha annusato un altro cane, quando mi ha svegliata all’alba, mi ha spinto la testa sul collo e mi ha leccata.
Forse nei cani cerchiamo un modo per tollerare noi stessi, o l’imperfezione del mondo. Siamo felici se mangia, se fa la cacca, se si rotola a terra o ci mordicchia, lo amiamo perché esiste, e basta. A chi, a cos’altro riserviamo quest’amore senza giudizio, senza aspettative?
Quando mi guarda fisso negli occhi, ormai libero dal timore che in principio lo obbligava a evitare ogni sguardo, penso: si fida. E mi dico che era proprio lui, il cane di cui avevo bisogno. Perché assistere allo spettacolo di Bryan che sboccia è una forma della speranza.

L'adozione attraverso i social network, le aspettative aumentate dall'effetto pandemia e il vero incontro

"Desideravo un cane per vincere la solitudine che il 2020 mi aveva inflitto, ne immaginavo uno vivace, chiassoso, irruento, la lingua sempre fuori, e Bryan non sembrava così. Però era un cane adulto, rischiava di rimanere in rifugio per sempre: se nessuno l’aveva voluto, diceva il mio compagno, ora ci saremmo stati noi". Rosella Postorino nel suo racconto mette subito chi legge di fronte a un passato recente, ancora presente in realtà, in cui siamo tutti immersi e che ha portato molte persone a adottare animali nel periodo della pandemia dovuta alla diffusione della Covid19. Spinti dal desiderio di mettere fine a un senso di solitudine, tanti hanno pensato di compensare con la presenza di un animale tra le mura domestiche. Dalle sue parole emerge anche ciò che accade da tempo: i social network sono diventati una delle destinazioni principali in cui associazioni e volontari postano immagini di cani e gatti per favorirne l'adozione.

Il racconto prosegue con un altro step fondamentale in cui tanti che hanno fatto la scelta di non recarsi in un canile ma appunto di scegliere attraverso una foto si ritrovano poi immersi: il primo incontro e la scoperta che la personalità del cane, che sarà da quel momento parte integrante della famiglia, non è come ci si aspettava: "Bloccati un mese e mezzo in Liguria per questioni familiari, quasi ogni giorno parlavamo di lui, sognavamo il momento nel quale, tornati a Roma, saremmo andati a prenderlo: l’incubo che stavamo affrontando prima o poi avrebbe avuto fine, e sarebbe stato Bryan a sancirla. L’abbiamo preso un sabato a Cassino, avevamo in programma una passeggiata a Gaeta, ma lui non muoveva un passo, tanto era spaventato. In auto ha vomitato due volte; a casa, non si è staccato dalla porta d’ingresso per l’intera notte, non ha bevuto né mangiato. Per due giorni non ha neanche fatto i bisogni. Dovevamo tenerlo in braccio per salire o scendere le scale, il guinzaglio lo paralizzava. Ma perché il mio cane dev’essere emotivo, mi disperavo, perché non me n’è capitato uno superficiale?».

L'animale come specchio, fin quando non lo si riconosce altro da sé

«Non era solo che mi sentivo rifiutata da lui. Non era nemmeno l’impegno che richiedeva, l’avevo messo in conto. Ce l’avevo con Bryan perché era fragile e nella sua fragilità rivedevo la mia. La paura di ciò che è ignoto, la difficoltà a fidarsi degli altri, l’emozione che agisce sul corpo. Rivedevo la parte di me che non accetto, l’avevo riconosciuta fin dalla foto. Eppure avevo scelto proprio lui, mi ero fatta quattro ore di viaggio per portarlo via con me». Quel muso che spuntava da uno dei tanti appelli sui Facebook per trovare adozione, così, per Rosella si rivelava per ciò che era davvero e allo stesso tempo diventava specchio delle sue emozioni. E qualcosa di molto importante emerge poi tra le righe che induce a una ulteriore riflessione: l'aver messo in conto la dedizione necessaria nell'accogliere una vita, l'affrontare il peso della realtà rispetto alle proprie aspettative nei confronti di un cane e mettersi poi davvero in contatto con quel singolo essere vivente anche quando ciò che rimanda ancora non è chiaro quanto sia frutto della propria visione emotiva e quanto davvero attribuibile all'altro.

L'attesa e il rispetto dei tempi: così nasce una relazione sana

E poi arriva la svolta, quell'istante in cui avviene qualcosa di diverso perché diversamente ci si è posti nei confronti del cane, senza forzarlo a un'interazione ma lasciandolo libero di vivere i suoi tempi. «I primi giorni, accarezzandolo, gli domandavo a bassa voce se era contento di averci incontrati. Volevo convincerlo che valeva la pena allontanarsi dal cuscino, scoprire il mondo, farsi amare da noi, ma non sapevo come. Poi un mattino si è alzato e ha esplorato la casa, e io l’ho spiato col fiato trattenuto. Ho riso di gioia per ogni suo progresso, la prima passeggiata, la prima corsa sull’erba, quando ha annusato un altro cane, quando mi ha svegliata all’alba, mi ha spinto la testa sul collo e mi ha leccata».

Il dopo è un viaggio insieme, nella consapevolezza di ammettere quanto riversiamo nei cani i nostri desideri e quanto invece sia importante tenere conto dei loro e con una valutazione finale che fotografa al meglio quell'alchimia che nasce quando finalmente la parola "relazione" si realizza per ciò che è: un incontro costante da equilibrare nel tempo mediando tra se stessi e l'altro, ricordandoci che l'amore incondizionato, però, non basta. «Forse nei cani cerchiamo un modo per tollerare noi stessi, o l’imperfezione del mondo. Siamo felici se mangia, se fa la cacca, se si rotola a terra o ci mordicchia, lo amiamo perché esiste, e basta. A chi, a cos’altro riserviamo quest’amore senza giudizio, senza aspettative? Quando mi guarda fisso negli occhi, ormai libero dal timore che in principio lo obbligava a evitare ogni sguardo, penso: si fida. E mi dico che era proprio lui, il cane di cui avevo bisogno. Perché assistere allo spettacolo di Bryan che sboccia è una forma della speranza».

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Diana Letizia
Direttrice editoriale
Giornalista professionista e scrittrice. Laureata in Giurisprudenza, specializzata in Etologia canina al dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli e riabilitatrice e istruttrice cinofila con approccio Cognitivo-Zooantropologico (master conseguito al dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma). Sono nata a Napoli nel 1974 e ho incontrato Frisk nel 2015. Grazie a lui, un meticcio siciliano, cresciuto a Genova e napoletano d’adozione ho iniziato a guardare il mondo anche attraverso l’osservazione delle altre specie. Kodami è il luogo in cui ho trovato il mio ecosistema: giornalismo e etologia nel segno di un’informazione ad alta qualità di contenuti.
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