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7 Aprile 2021
16:58

Uccidi il leone: quando sparare “fa divertire”. Il business della caccia al trofeo

Cacciare leoni, elefanti, puma, tigri o orsi polari. Sono le vacanze dedicate alla caccia. Il trophy hunting per cui si arriva a sborsare anche 50 mila dollari per sparare ad un animale selvatico e portarsi a casa un pezzo del suo corpo come souvenir. La sua degenerazione è la canned hunting, la "caccia in scatola": quando gli animali sono uccisi mentre sono chiusi in un recinto. Nessuna possibilità di fuga, nessuna pietà.

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Giornalista
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Portarsi a casa il cranio di un leone a cui hai sparato, un brandello della sua pelle e la sua mascella. Ed esporli nel salotto buono della villa di Malmö. Zlatan Ibrahimovic, uno dei calciatori più famosi al mondo, deve aver trovato tutto ciò molto divertente, certamente prestigioso, probabilmente molto virile.  Secondo il sito svedese Expressen, lo sportivo, attualmente rossonero con il Milan, ha participato ad una battuta di caccia in Sudafrica nel 2011 insieme ad un bel gruppetto di cacciatori, un’ottantina in tutto. Una vacanza in Africa per sparare ad uno degli animali più belli, e più vulnerabili, del pianeta.

Trophy Hunting: quando l'animale (o una sua parte) diventa un souvenir

Può sembrare un’allucinazione ma non è così inconsueto: la caccia ai trofei, trophy hunting, è un "passatempo" che i colonialisti britannici avevano introdotto in Africa ai tempi in cui la fauna era abbondante e selvatica. Il concetto è quello di cacciare animali accuratamente selezionati – spesso selvaggina di grossa taglia come rinoceronti, elefanti, leoni, puma e orsi – con la licenza ufficiale del governo. Il trofeo è l'animale (o la sua testa, pelle o qualsiasi altra parte del corpo) che il cacciatore conserva come souvenir. «È un'industria in forte espansione e in diversi paesi è legale, anche se con restrizioni sulle specie che possono essere cacciate, dove e quando la caccia può aver luogo e le armi che possono essere utilizzate» spiega il conservazionista e editorialista della BBC Wildlife Mark Carwardine. Rispetto ai tempi dei colonialisti britannici ora, a quella pratica, si è abbinato il concetto di vacanza. Perché i luoghi dove si pratica sono tra i più belli al mondo. Africa, soprattutto, e nord America.

Quanto costa uccidere per divertimento

«Uccidere un leone selvatico può costare intorno ai 50 mila dollari, pacchetto completo. Un leone bello, maschio sui tre, cinque anni. In questa fascia sono rarissimi – spiega Andrea Meggiorin rappresentante italiano della ong CACH Campaign against canned hunting nata in Africa per monitorare il fenomeno. – Chi va a cacciare a pagamento? Gli americani sono al top. La metà del disastro la fanno loro. Gli italiani che fanno queste cose sono pochissimi, principalmente in Tanzania che è molto di moda perché vicina. Tanti vanno per bufali e antilopi. In Europa i maniaci per la caccia al trofeo sono spagnoli, polacchi, inglesi e francesi, nell’ordine. Poi ci sono i nuovi ricchi, tipo i russi, e ultimamente stanno cominciando ad apparire anche i cinesi». Oltre alle considerazioni etiche, imposte dall'idea stessa dell’uccisione degli animali come divertimento o addirittura come sport, c’è inoltre il problema della conservazione. «Pagare enormi somme di denaro per uccidere degli animali selvatici da esibire in casa è una pratica triste e crudele che danneggia la conservazione di molte specie ed è frutto di un retaggio coloniale – commenta Martina Pluda rappresentante per l’Italia di HSI Humane Society International – Centinaia di migliaia di mammiferi selvatici, comprese specie minacciate o a rischio estinzione, vengono uccisi ogni anno dai cacciatori che preferiscono sterminare gli animali più grandi e imponenti, portando al declino le popolazioni di leoni, leopardi, elefanti e rinoceronti».

Canned hunting: quando la caccia diventa indifendibile

Essere un cittadino europeo o americano in cerca di divertimento facile, ma costoso. Scegliere un leone o un puma o addirittura una tigre, sfogliando un catalogo di foto e prezzi: più l’animale è bello, imponente, fiero e maestoso, più costerà ucciderlo. Partire in vacanza per andarlo ad uccidere. Sparargli a distanza, protetti da una recinzione, mentre lui è prigioniero in un recinto circoscritto. Nessuna possibilità di fuga. Nessuna pietà. Portarsi a casa un orecchio, la coda, il cranio, se possibile, di un esemplare allevato appositamente per essere ucciso. Non è un film dell'orrore. Tutto questo esiste e si chiama “caccia in scatola”, Canned hunting per gli americani. La forma più indifendibile di caccia ai trofei. «In Sudafrica la situazione è particolarmente grave – aggiunge Martina Pluda di HSI. – Qui si trovano più di 400 strutture che allevano in cattività tra i 10 mila e i 12 mila leoni, la maggior parte dei quali destinati alla cosiddetta “caccia in scatola” ovvero la caccia in aree recintate dove gli animali da cacciare non hanno nessuna possibilità di fuga. Secondo HSI/Africa la maggior parte dei trofei di leone esportati dal Sudafrica provengono proprio da quest’industria. Cacciare un animale che non può scappare è pura vigliaccheria».

Caccia in scatola: gli stessi cacciatori la disprezzano

«La "caccia in scatola" è considerata da sfigati da molte associazioni di cacciatori stessi – spiega Meggiorin – È il motivo per cui i tedeschi appaiono poco: sono stati i primi a sconfessare questa pratica dicendo che chi faceva queste cose non va considerato un cacciatore. In Sudafrica, dove è vietato sparare agli animali selvatici, il grosso del business è rappresentato dalla "caccia in scatola". Gli animali selvatici stanno solo nei parchi e lì non si spara. In Sudafrica ci sono molti più leoni in cattività che selvatici nei parchi nazionali, ormai. Non sanno più dove metterli. Ovvio che li fanno uccidere al primo disposto a sborsare qualche migliaio di euro. Nel resto dell’Africa invece la caccia ai trofei prevale».

Quando sparare è legale

Il vero problema è però legato alla legalità, cioè alla concessione delle licenze di caccia per un determinato numero di esemplari che cambia a seconda della situazione di conservazione delle varie specie. «Alcuni stati falsificano sistematicamente i dati sulla consistenza delle loro popolazioni animali per poter continuare a rilasciare licenze di caccia. Esempio tipico è l’Angola che dichiara circa 2000 leoni, quando in realtà ce ne sono una cinquantina. Il caso Namibia è molto particolare: molti leoni vivono fuori dai parchi, nelle cosiddette "conservancies" dove vivono anche comunità di allevatori. Come si rilascia una licenza di abbattimento di un leone o un elefante in Namibia? L' animale viene dichiarato "problem animal". Si costruisce una situazione di danno o pericolo per la comunità e poi si vende la licenza a un "outfitter", un organizzatore di battute di caccia che ha già la sua lista di clienti in attesa. In Namibia tutti gli animali dei parchi sono comunque a rischio, perché uscire è facilissimo (reti da giardino) senza manutenzione alcuna. Basta mettere un asino morto e il leone esce. Stessa tecnica in Zimbabwe e Zambia, dove le recinzioni sono solo virtuali. Cecil (il leone simbolo dello Zimbabwe ucciso per 55 mila dollari da un dentista americano nel 2015, n.d.r.) fu ucciso così». conclude Meggiorin. Cecil aveva tredici anni, era radiocollarato e considerato un simbolo per la sua bellezza. Venne attirato fuori dal recinto dell'area dove viveva con un'esca, ferito con una freccia e poi finito dal fucile di Walter Palmer dopo 10 ore d'agonia. Tutto in regola, secondo le leggi.

Falsi santuari e volontari: come produrre soldi dalle buone intenzioni

Un gigantesco business che funziona anche grazie allo sfruttamento dei volontari. L’Africa è piena di falsi santuari, riserve  o ranch dove migliaia di animali vengono allevati, sfruttando la buona fede dei volontari, per produrre vere e proprio prede che poi troveranno la morte nei ranch di “caccia in scatola”. Un’industria fiorente dove i falsi santuari costituiscono una fonte di approvvigionamento continuo di animali da mandare al macello. E dove i volontari, che arrivano da ogni parte del mondo disposti a pagare anche 2000 dollari per un paio di settimane in cui sono a disposizione per i lavori più disparati a contatto con gli animali, rappresentano un ulteriore tassello dell’affare. La loro buona fede non è messa in discussione, ma il loro sfruttamento rappresenta un notevole contributo al massacro di questi animali. «Queste false riserve che si nascondono dietro l’inganno della salvaguardia sono abilissime nel creare siti web che diano l’impressione di avere a che fare con santuari e non con allevamenti di animali in cattività – spiega  Chris Mercer fondatore della ong CACH Compaign against canned hunting – sono molti astuti nel respingere le domande dei volontari sospettosi e li tranquillizzano dicendo loro che una volta cresciuti i cuccioli verranno rilasciati in libertà. Bisogna fare molta attenzione, prima di partire. Documentarsi e tenere gli occhi aperti: i veri santuari non sono autorizzati dalla legge ad allevare in cattività e quindi i volontari dovrebbero insospettirsi di qualunque organizzazione che gli permetta di interagire con i cuccioli». Per non ritrovarsi ad accarezzare un cucciolo la cui sorte sarà finire nel mirino di un ricco cacciatore. Come quello di Ibrahimovic.

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Maria Grazia Filippi
Giornalista
Scrivo da sempre, ma scrivere di animali e del loro mondo è la cosa più bella. Sono laureata in lettere, giornalista professionista e fondatrice del progetto La scimmia Viaggiante dedicato a tutti gli animali che vogliamo incontrare e conoscere nei luoghi dove vivono, liberi.
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