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21 Aprile 2023
13:39

Andrea Mustoni, “padre” del progetto LifeUrsus a Kodami: «Con schiamazzi e senza soluzioni tecniche si rischia il bracconaggio»

Andrea Mustoni è stato il coordinatore tecnico del progetto LifeUrsus e ha gestito il processo di reintroduzione degli orsi sulle Alpi Centrali. Kodami lo ha raggiunto nel Parco Naturale Adamello Brenta per ricostruire la storia della coesistenza tra uomini e orsi dagli anni Novanta a oggi.

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Intervista a Dott. Andrea Mustoni
Coordinatore Tecnico del progetto Life Ursus - Reponsabile comunicazione scientifica Parco Adamello Brenta
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©Pnab – Andrea Mustoni

Dopo settimane di silenzio, il Parco Adamello Brenta ha espresso la sua posizione sul tragico incontro tra l'orsa JJ4 e Andrea Papi in Val di Sole che ha portato alla morte del giovane il cui corpo è stato ritrovato nella notte tra il 5 e il 6 aprile sul monte Peller. L'orsa è stata poi catturata e attualmente si trova rinchiusa nel rifugio del Casteller. Su di lei pende la condanna a morte decretata dal presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti, ma su quale sarà il suo destino si attende la decisione del Tar che arriverà il 2 maggio.

Tanto si è detto su quanto accaduto e da persone poco competenti tra pareri e opinioni dell'ultima ora. Spesso, in particolare, si è tirato in ballo il progetto Life Ursus che negli anni 90 ha dato il via al ripopolamento degli orsi bruni sulle Alpi centrali. Dal 1996 al 2004, grazie alla collaborazione tra Parco Naturale Adamello Brenta e Unione Europea, furono pianificati e poi realizzati i trasferimenti dalla Slovenia dei primi 10 orsi che hanno dato poi vita all'odierna popolazione di orsi in Trentino.

Per comprendere la storia della reintroduzione dell'orso sulle Alpi centrali e della coesistenza tra uomini e plantigradi in Trentino, Kodami è andato nel cuore del Parco Naturale Adamello Brenta, dove Andrea Mustoni, Coordinatore Tecnico del progetto Life Ursus e responsabile comunicazione scientifica del Parco, ha deciso di rilasciare a noi la sua prima intervista.

«Se non si trovano soluzioni tecniche rapide e fattibili, distanti dagli schiamazzi che stiamo sentendo in questi giorni, andremo incontro a una fase in cui prenderà piede il bracconaggio che potrà avere un ruolo decisivo nell'abbassare il numero di orsi sul territorio, ma non possiamo certo lasciare che sia l'illegalità a gestire il patrimonio collettivo della fauna». È una delle affermazioni più importanti che Mustoni ci ha fatto, ma con lui abbiamo parlato del passato, del presente e soprattutto di quello che potrebbe essere il futuro del rapporto della coesistenza tra esseri umani e orsi in questa zona del nostro Paese.

Cosa è stato il Life Ursus?

È stato il progetto di reintroduzione dell'orso bruno sulle Alpi centrali, promosso dal Parco Naturale Adamello Brenta e finanziato da parte dell'Unione Europea. La sua durata è stata dal 1996 al 2004. Quando si parla di progetto LifeUrsus, riferendosi alla gestione odierna, se ne parla in modo improprio, perché è finito quasi 20 anni fa. Quanto avvenuto al tempo, invece, è stato riconosciuto come un enorme successo. Ciò che è accaduto dopo il 2004, ovvero dopo la fine fisiologica del progetto di cui sono stato coordinatore, non può essere chiamato LifeUrsus, ma è il progetto di gestione e conservazione degli orsi in Trentino.

In questi giorni, però, si sente parlare del progetto definendolo un fallimento. Cosa ne pensa? 

Difficile mettere in discussione dal punto di vista tecnico il progetto in sé. Ciò che è iniziato dopo il 2004 è un procedimento diverso, coordinato sotto la responsabilità della Provincia Autonoma di Trento. Capisco che in modo colloquiale si possa fare accenno al LifeUrsus per descrivere tutte le attività di gestione dell'orso in Trentino, ma quello di oggi è un progetto completamente differente rispetto a vent'anni fa.

Cosa è mancato al termine del progetto?

Ho un'opinione chiara e forte al riguardo: sono convinto che l'errore sia stato quello di gestire, dopo il 2004, in maniera ordinaria una situazione che era ancora straordinaria e richiedeva sforzi economici e di risorse umane. Non voglio dire che non sia stato fatto nulla e l'impegno, in particolare dal Corpo Forestale, è stato notevole. Ma andavano considerati anche altri obiettivi importanti. In queste situazioni è indispensabile lavorare con una comunicazione seria, sincera, massiccia e trasparente che raggiunga tutti i livelli della popolazione. Questo non l'ho visto. Vi è poi un'ulteriore attività, che ritengo focale dal punto di vista della comunicazione, ovvero la ricerca scientifica. Le genti trentine hanno bisogno di sapere cosa fanno gli orsi sul territorio e bisogna quindi studiare il loro comportamento per raccontarlo agli abitanti e anche agli ospiti che raggiungono queste terre per turismo. La ricerca scientifica non deve dedicarsi solo a pubblicazioni di carattere scientifico di grande lustro, ma anche una ricerca applicata per raccontare ciò che fa la specie. In questo modo si possono superare le dicerie e le credenze popolari. Non penso che mancassero le risorse economiche: se fossero state investite in questi ambiti, forse, oggi, non bisognerebbe rincorrere all'emergenza, come sta succedendo in questi giorni.

Nelle ultime settimane molte persone si sono chieste perché sia stato reintrodotto l'Orso sulle Alpi centrali

C'è un movimento d'opinione forte che, forse, in questi giorni così tristi è più silente del solito ma affonda le sue radici nei primi decenni del secolo scorso. Fu Giovanni Pedrotti, alpinista, etnografo e naturalista il primo, nel 1919, a parlare dell'importanza fondamentale della tutela dell'orso sulle montagne del Trentino. Questo movimento è continuato anche oltre la Seconda Guerra Mondiale con il naturalista e ambientalista Renzo Videsott e con altri studiosi che hanno dato inizio ad una sensibilizzazione dell'opinione pubblica. Il loro obiettivo era quello di evitare la scomparsa dell'orso bruno, un elemento molto importante dal punto di vista ecologico, ma anche culturale. Sono stati proprio questi movimenti che hanno portato all'Istituzione del Parco Adamello Brenta, nel 1988. Da sempre, infatti, l'obiettivo del parco è quello della salvaguardia dell'orso bruno su queste montagne. Pochi mesi dopo, il parco ha fatto una dichiarazione d'intenti mettendo il simbolo dell'orso nel proprio logo, a dimostrare l'intenzione di intervenire per evitare la scomparsa dell'orso. La presenza dell'orso bruno ha un valore ecologico, ma anche e soprattutto culturale, legato all'approccio delle genti trentine nei confronti della Natura.

Quanto accaduto in Val di Sole potrebbe essere un punto di svolta epocale per la gestione faunistica e per l'orso bruno sulle Alpi centrali. Quali saranno a suo parere i possibili sviluppi in termini di conservazione?

Ci troviamo in una situazione di enorme confusione tecnica e anche sociale. Non ho chiaro cosa avverrà in futuro, ma un grande timore: se non si trovano soluzioni tecniche rapide e fattibili, distanti dagli schiamazzi che stiamo sentendo in questi giorni, andremo incontro a una fase in cui prenderà piede il bracconaggio che potrà avere un ruolo decisivo nell'abbassare il numero di orsi sul territorio. È evidente che il bracconaggio, oltre ad essere perseguibile penalmente, è un'attività da condannare e deprecare. Non possiamo lasciare che sia l'illegalità a gestire il patrimonio collettivo della fauna. La mia speranza, invece, è che la discussione venga riportata su criteri di tipo tecnico, lontani dai proclami e che si riesca, nell'interesse collettivo, a ricondurre la gestione degli orsi verso una maggiore aderenza tecnica. Questo lo dobbiamo fare anche in memoria di Andrea Papi e per rispetto della sua famiglia. Ora è estremamente importante guardare al futuro ragionando sul passato. Andrà affrontata la situazione con dignità e in maniera sistemica, senza sottovalutarne la complessità oggettiva. Uscendo dalle questioni tecniche, dobbiamo ricordarci che stiamo affrontando una tragedia collettiva. Ora dovremo lavorare per costruire un futuro che sia migliore rispetto al passato.

In questi giorni si è parlato molto dell'ipotesi di sterilizzazione delle femmine, in modo da ridurre il rischio di comportamenti aggressivi. È un'opzione realizzabile?

La sterilizzazione di orsi in natura può avere difficoltà di carattere tecnico ma non mi sento di escluderla per quanto riguarda un'opzione per procedere senza dover arrivare all'abbattimento. Per attuarla bisogna affrontare diverse complicazioni tecniche, date dalla cattura e dall'intervento immediato ma la considero una strada percorribile e che possa intervenire anche sul controllo numerico della specie. È senza dubbio una delle tante cose che possiamo tenere in considerazione per il futuro della popolazione di orsi trentini. Per quanto riguarda JJ4, nello specifico, ormai si trova in un recinto. In cattività la sua sterilizzazione sarebbe fattibile, certo, ma l'ipotesi di una sua liberazione si trasforma ogni giorno di più in un'utopia, quindi non credo che, ad oggi, possa avere un'efficacia sulla conservazione della specie. La sterilizzazione dei soggetti in libertà, in ogni caso, è un'ipotesi meno utopica del trasferimento di 70 orsi altrove, come si è sentito dire in questi ultimi giorni (il riferimento è alle dichiarazioni del presidente della Provincia Fugatti ndr).

Perché non è possibile spostare così tanti soggetti?

Catturare 70 orsi in poco tempo non è certamente semplice, per usare un eufemismo. Non dimentichiamo che dovremmo trovare posti in natura, non certo zoo o gabbie, che accettino questi animali. Mi chiedo quale sia la regione italiana o la nazione europea disposta ad accettare gli orsi trentini e, soprattutto, in poco tempo. Una manovra non solo complessa, ma quasi utopica.

Per quanto riguarda, invece, il comportamento della specie, tra le molte polemiche, in questi giorni è stato detto più volte che una delle maggiori problematiche è la stanzialità delle femmine. Secondo Lei, se ci fosse maggiore collaborazione con le province limitrofe, l'ampliamento dell'areale potrebbe seguire processi più rapidi?

Dobbiamo ancora una volta tornare alle origini, quando con il progetto LifeUrsus avevamo stipulato dei protocolli d'intesa con le province limitrofe. Bolzano, in particolare, si era dichiarata favorevole a collaborare con il progetto di reintroduzione dell'orso sulle Alpi centrali. Il Pacobace, ovvero il protocollo tecnico realizzato dall'Ispra, dice proprio che la presenza della specie va affrontata in sinergia su ampia scala territoriale. Sono assolutamente convinto che una maggiore collaborazione e una reale comunione d'intenti con Bolzano, Brescia, Sondrio e Verona sarebbe auspicabile. Senza il loro coinvolgimento i documenti come il Pacobace rischiano di rimanere delle ottime dichiarazioni d'intenti, con poca aderenza sul territorio. Serve maggiore concretezza nelle collaborazioni e capacità di andare oltre le cose dette e poi lasciate solo sulla carta.

La politica sta affrontando la questione affermando che ci sono troppi orsi in Trentino, è vero?

Da un punto di vista strettamente biologico no. I nostri boschi possono sopportare una presenza di orsi più massiccia di quella attuale. Gli specialisti, però, sono ormai abituati a ragionare non solo in termini di habitat biotico e biologico, ma anche in termini di "habitat politico", ovvero il grado di accettazione da parte dell'uomo. Per valutare questo aspetto bisogna ascoltare il sentore della gente e comprendere quale sia la percezione, affinché non si sviluppino problematiche di tipo sociale. In questo momento in Trentino il sentore è quello che, da un punto di vista sociale, siano troppi e bisognerà, forse, fare dei ragionamenti anche in termini appunto di habitat politico e di numero tollerabile socialmente, andando oltre le ideologie dei singoli gruppi di interesse e cercando una soluzione che sia davvero collettiva, ascoltando.

Alcuni hanno affermato che il numero massimo di orsi, secondo il progetto Life Ursus, fosse 50. È vero?

Sono state dette diverse inesattezze da un punto di vista numerico. Questa è una di quelle. Lo studio di fattibilità, realizzato da Ispra, prevedeva un numero minimo di 40/60 orsi affinché la popolazione di orsi fosse vitale e capace di andare verso il futuro senza interventi da parte dell'uomo. Nessun documento tecnico e nessuno studio condotto successivamente ha mai previsto alcun numero massimo. Questo parametro è determinato sia da criteri di carattere ambientale che sociale ed è legato a quanti ne vogliamo tollerare sul territorio. Anche lo sviluppo numerico, che è stato definito erroneamente "abnorme" o "fuori controllo", in realtà prevedeva un numero di 70 orsi nel giro di 18 anni. Basta qualche semplice calcolo per renderci conto di come siamo in linea con lo sviluppo numerico della popolazione, che oggi conta poco più di 100 esemplari. Potremmo dire che era previsto, basta leggere lo studio di fattibilità, all'interno del quale si parla anche degli ipotetici danni sul territorio e del rischio che gli orsi potessero aggredire delle persone. Se ci fosse stata maggiore attenzione, ci si sarebbe potuti preparare a quanto accaduto in Val di Sole.

Torniamo al presente: JJ4 aveva con sé i cuccioli al momento della cattura. Ritiene che questi esemplari, che hanno affrontato l'allontanamento della madre in maniera improvvisa, possano sviluppare comportamenti aggressivi e divenire soggetti problematici?

Il rischio che i cuccioli possano sviluppare problematicità esistono, ma non credo siano potenzialmente legati agli eventi dell'aggressione o della cattura della madre. Più che altro mi sento di osservare che hanno trascorso molto tempo con la madre e sappiamo che il processo di apprendimento è una fase estremamente importante per i giovani. Non a caso, JJ4 è figlia di Jurka, a sua volta nota per comportamenti problematici. Sappiamo che nel caso degli orsi ci sono delle linee di problematicità che, oltre ad avere a che fare con l'apprendimento, forse sono anche di carattere genetico. Senza allarmismi, quindi, ritengo che anche questi orsi, in futuro, potrebbero manifestare problematicità. Personalmente li monitorerei con più attenzione rispetto ad altri.

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Claudia Negrisolo
Educatrice cinofila
Il mio habitat è la montagna. Sono nata in Alto Adige e già da bambina andavo nel bosco con il binocolo al collo per osservare silenziosamente i comportamenti degli animali selvatici. Ho vissuto tra le montagne della Svizzera, in Spagna e sulle Alpi Bavaresi, poi ho studiato etologia, sono diventata educatrice cinofila e ho trovato il mio posto in Trentino, sulle Dolomiti di Brenta. Ora scrivo di animali selvatici e domestici che vivono più o meno vicini agli esseri umani, con la speranza di sensibilizzare alla tutela di ogni vita che abita questo Pianeta.
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