episodio 7

Viaggio a Gorgona: l’isola carcere dove si onora il diritto alla vita di uomini e animali

Gorgona è l’ultima isola carcere d’Italia. Si trova nell’arcipelago toscano ed è conosciuta come “l’isola dei diritti”, perché lì i detenuti non passano le loro giornate chiusi in una cella, ma all’aperto prendendosi cura degli animali. Giacomo, Tip e Singh sono tre dei detenuti che hanno chiesto di scontare la loro pena a Gorgona.

30 Agosto 2022
15:38
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«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». È ciò che leggono tutti i visitatori appena approdano a Gorgona, l'ultima isola carcere d'Italia, a 37 chilometri dalle coste livornesi. La citazione in grandi lettere blu che troneggia sul molo dell'isola è tratta dall'articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana, la più bella d'Europa e forse del modo, che a Gorgona prende vita attraverso la realizzazione di un progetto di reinserimento sociale che vede protagonisti animali e detenuti.

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Gorgona

Per la sua posizione isolata e le dimensioni contenute, appena 2,23 chilometri quadrati, Gorgona è sempre stata un luogo di ritiro dalla società, prima per i monaci eremitici e poi per detenuti. Dalla metà dell'Ottocento, infatti, sull'isola sorge un carcere che in passato era un penitenziario di massima sicurezza, una "Alcatraz italiana". Oggi invece Gorgona accoglie una colonia agricola penale a libertà attenuata con circa 80 detenuti che dalle 9 alle 21 possono svolgere attività nell'orto e con gli animali dell'ex macello.

È proprio in questa relazione tra persone e animali che risiede l'unicità di questo luogo rispetto a tutte le altre realtà penitenziarie, come spiega Giacomo, uno dei detenuti dell'isola che Kodami ha incontrato proprio a Gorgona: «Io con gli animali ci parlo, parlo più con loro che con le persone. L’amore per gli animali ce l'ho nel sangue e quando uscirò continuerò quello che sto facendo qui».

Kodami ha incontrato le vite che abitano in quest'isola, umane e non, e raccolto la storia di Giacomo e degli altri detenuti che attraverso la relazione con gli animali stanno cercando di trovare una strada per rientrare nella società. Un lavoro quotidiano di cura che ha trasformato il luogo d'isolamento sociale per eccellenza in un ponte con la propria umanità.

Ciò sta avvenendo attraverso il progetto "Isola Fenice", iniziato un anno fa e incentrato sulla relazione tra gli animali e le persone private della libertà. Il percorso è seguito da una equipe di esperti in interventi assistiti con animali (Iaa) e i risultati raccolti nel corso dell'anno saranno esaminati dall'Università di Milano-Bicocca allo scopo di studiare l'effetto rieducativo del contatto con gli animali per i detenuti.

Da macello a "isola dei diritti"

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La storia di Gorgona come istituto di pena affonda le sue radici nel 1869 quando divenne una succursale del vicino carcere di Pianosa. Da quel momento e per i 153 anni successivi Gorgona non ha mai smesso di ospitare detenuti. In più di un secolo e mezzo di storia, il nostro Paese ha cambiato volto molte volte: la monarchia è finita e nell'Italia repubblicana si sono alternati 42 ministri della Giustizia. Ma i detenuti hanno continuato ad arrivare sull'isola che oggi è una sezione del carcere di Livorno. Si tratta di un caso unico in Italia e nell'area Mediterranea. L'Asinara, La Maddalena, anche Pianosa: tutte le altre isole carceri italiane progressivamente sono state dismesse, anche a causa delle numerose sfide connesse alla gestione di un carcere in mezzo al mare, relative principalmente alla difficoltà di ricevere approvvigionamenti dalla terra ferma.

Per fare fronte al problema della sussistenza, dal Secondo Dopoguerra sull'isola era stato creato un macello e si era dato il via a una serie di attività zootecniche legate alla produzione casearia. All'interno del sistema carcerario, i detenuti si occupavano dell'allevamento delle capre e delle mucche facendole nascere, portandole al pascolo, e infine accompagnandole alla morte. Una routine rimasta invariata fino alla chiusura del macello, e alla fine di ogni altra forma di sfruttamento animale, come ricostruisce su Kodami Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Livorno: «Molti detenuti che si prendevano cura degli animali si rifiutavano, giustamente, di portarli al macello perché li avevano curati fin dalla nascita e non accettavano una simile fine, questo ci ha fatto riflettere».

Dal basso è partita una richiesta di grazia per gli animali dell'isola che ha coinvolto prima i detenuti di Gorgona e poi la società civile attraverso una petizione popolare firmata, tra gli altri, anche da scrittori come Erri De Luca e Susanna Tamaro, e costituzionalisti come Stefano Rodotà.

Le prime richieste di considerare gli "animali da reddito" presenti a Gorgona come esseri senzienti portatori di soggettività sono stata accolte dal Ministero della Giustizia nel 2014 per arrivare nel 2020 all'emanazione di accordo che ha restituito la libertà ai quasi 600 animali di Gorgona. «Nel 2014 due capre seguivano come ombre due detenuti che se ne occupavano e che non volevano in alcun modo portarle al mattatoio – ricorda Mazzerbo – Quando abbiamo comunicato loro che si era deciso di salvarle era come se gli avessimo un po' notificato un permesso premio. Erano veramente felici. Ora questi due ragazzi sono fuori».

Grazie a quei primi detenuti è iniziato un lungo percorso che ha condotto alla completa dismissione del mattatoio e alla nuova vita degli animali. Alcuni, come i conigli, grazie al supporto della Lega anti vivisezione, sono stati trasferiti in rifugi e santuari sulla terra ferma, per altri invece è stato necessario trovare una soluzione diversa.

Ed ecco che per gli animali rimasti a Gorgona è nata l' "Isola Fenice", nato grazie a una convenzione tra il Comune, la direzione della Casa Circondariale con il supporto della Lav e dell'associazione Do Re Miao. Un progetto che attraverso una equipe specializzata ha dato vita ad attività di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti con l'ausilio di capre, mucche e altri animali.

«Il progetto Isola Fenice rappresenta il senso del rispetto della natura e dei diritti di tutti. Il nostro obiettivo è quello di lavorare perché a Gorgona si continui a seguire questa finalità ben precisa – commenta Mazzerbo – Attraverso questa iniziativa vogliamo mostrare che si può vivere rispettando i diritti degli animali, gli ultimi per eccellenza».

Mazzerbo lavora nella direzione degli istituti d pena dal 1989 e la gestione della ristretta comunità di Gorgona, composta da detenuti e personale dell'amministrazione carceraria, ha richiesto uno sforzo non indifferente: «Qui necessariamente i problemi e le difficoltà sono di tutti, dato che sull'isola vivono gli agenti con le loro famiglie, bambini compresi. La straordinarietà del luogo avvicina tanto e porta a lavorare insieme. Inoltre, a differenza di quanto succede in altre realtà dove i detenuti vengono deresponsabilizzati a Gorgona non è possibile. Ognuno fa la propria parte e questo fa crescere l’autostima e aumenta il senso di responsabilità delle persone».

I detenuti possono muoversi liberamente sull'isola in quelli che nel gergo della popolazione carceraria sono i "limiti", rappresentati dalla ex scuola dell'isola. L'edificio, di colore giallo e scrostato dal sole, sorge poco prima di una lunga scalinata che conduce al piccolo bar gestito dall'amministrazione penitenziaria e alle case dei secondini e delle loro famiglie. Pur non essendoci barriere fisiche, gli ospiti del carcere sanno che non possono superare quel punto. A loro è preclusa anche ogni discesa al mare, in ogni caso difficilmente accessibile da altri punti dell'isola circondata da coste ripide.

Quello di Gorgona è un microcosmo che deve essere gestito con molto equilibrio per non diventare esplosivo. In un simile contesto sarebbe stato impensabile per Mazzerbo non accogliere la richiesta di coloro che si ribellavano all'uccisione degli animali che per anni avevano fatto nascere e nutrito: «La presenza di un mattatoio in un carcere è una forte contraddizione con il concetto di reinserimento sociale, l'obiettivo al quale il carcere dovrebbe sempre tendere. Così quello che poteva sembrare un concetto percepito come astratto, in realtà è alla base del dibattito su tutti i diritti e soprattutto a quello che dovrebbe essere il vero fine della pena: la rieducazione».

In aggiunta a una finalità etica, la dismissione del macello ha comportato anche una riduzione dei costi di gestione per la direzione carceraria, sottolinea Mazzerbo: «Chiudere il mattatoio è coerente con il lavoro che abbiamo sempre fatto qui per il rispetto dell'ecosistema. Ma si trattava anche di una macchina dai costi importanti, inoltre la sua dimensione aveva assunto una connotazione quasi intensiva rapportata alla popolazione che poi usufruiva dei prodotti. Oggi i costi di gestione sono molto più bassi e l'impatto sul fragile ecosistema isolano è molto minore».

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Gorgona

È impossibile guardare Gorgona senza vederne la bellezza: non c'è punto dell'isola che non offra uno scorcio panoramico a picco sul mare, o sul verde che la circonda dove sono presenti uccelli migratori che qui si riposano nel viaggio tra Africa ed Europa. Sui rami si vedono gheppi, altri rapaci, e anche specie vegetali uniche come il cocomero asinino, una cucurbitacea “esplosiva” capace di lanciare i suoi semi a chilometri di distanza e con una velocità di 10 chilometri orari.

Gorgona è però anche una gabbia azzurra fatta di strade sterrate, di posta che non arriva, di parenti che non riescono a giungere in visita perché i collegamenti sono saltati a causa del maltempo. Condizioni riscontrate dall'Associazione Antigone, la più importante Onlus nata per tutelare i diritti delle persone private della libertà.

I volontari di Antigone nel corso della loro ultima visita sull'isola hanno rilevato che il problema sostanziale «riguarda la difficoltà di accesso all'isola per le famiglie dei detenuti: da un lato il dispendio economico richiesto per raggiungere il porto di Livorno da tutte le parti d'Italia e dell'altro l'insicurezza di poter realmente accedere all'isola qualora non vi siano le condizioni meteomarine opportune per far partire la motovedetta. Tutto ciò rende difficoltoso l'accesso a Gorgona. Non di rado succede che alcuni familiari si trovino al porto di Livorno per fare visita ad un detenuto ma debbano far ritorno a casa a causa del maltempo, dopo aver sostenuto una spesa di viaggio ingente».

In questa commistione di bellezza naturale e difficoltà umane si aggiunge poi il problema della violenza. È possibile rieducare persone che hanno commesso crimini violenti se durante la pena continuano a perpetrarla su altri esseri viventi? «No – è la risposta di Mazzerbo – La pena risiede nella privazione della libertà, che in sé è già una punizione sufficiente, abbassare la qualità della vita dei detenuti va oltre il senso del dettato costituzionale e non consente il reinserimento in società».

La rinascita attraverso mucche e maiali

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Oggi i detenuti di Gorgona si prendono cura degli animali rimasti sull'isola: tori, mucche, maiali, capre senza più l'obbligo di condurli al mattatoio. Una esperienza che aumenta il benessere degli animali e anche delle persone, come sottolinea la referente del progetto e presidente dell'associazione "Do Re Miao" Barbara Bellettini: «Il progetto dell'Isola Fenice è unico nel suo genere perché è la prima volta che vengono coinvolti animali che sono stati riscattati dal loro destino produttivo per essere inserite in un progetto educativo. Per questo vogliamo raccogliere dati scientifici sull'efficacia della relazione con gli animali da reddito in termini di rielaborazione positiva del vissuto dei detenuti».

A Gorgona arrivano soprattutto persone a fine pena che spesso hanno scontato una detenzione molto lunga e per questo sono in cerca di uno spazio per reintrodursi in società attraverso il lavoro. Si tratta di individui che non devono avere trascorsi per droga e che presentano una richiesta motivata per giungere sull'isola dove potranno svolgere un lavoro di tipo agricolo o con gli animali. La motivazione e l'interesse devono quindi essere molto forte, e solo una piccola parte di chi arriva prende parte al progetto che oggi ha arruolato 30 detenuti.

Isola Fenice è articolata in incontri settimanali dove vengono fatte lezioni formative e attività con operatori esperti in Iaa, spiega Bellettini: «I momenti didattici riguardano soprattutto l'evoluzione degli animali domestici e la pressione selettiva che l'uomo ha operato su di essi per portarli ad essere sfruttabili da un punto di vista zootecnico. Lo facciamo per portare alla riflessione sulla responsabilità che abbiamo nei confronti di questi animali».

A rendere inedito l'intervento di supporto terapeutico con i detenuti di Gorgona è il tipo di animale impiegato: «Si tratta di "animali da reddito" – sottolinea Bellettini – Convenzionalmente gli interventi di Iaa vengono eseguiti con cavalli, cani, catti, conigli che vengo portati dagli operatori stessi. Qui invece gli animali si trovano già con i detenuti e sono specie che tradizionalmente vengono impiegate per il lavoro».

Una innovazione che si discosta dalle linee guida nazionali, come racconta Lino Cavedon, consulente del progetto Isola Fenice, che quelle indicazioni le conosce molto bene perché era nella Commissione che le ha redatte. «Le linee guida danno un tracciato, ma nulla vieta ai centro di referenza di considerare altri animali. Dalla nostra esperienza sappiamo che gli animali da reddito hanno una valenza importante per la rieducazione. Siamo usciti un po’ dalle linee guida restando però un’attività di sostegno terapeutico».

I dati raccolti verranno poi vagliati dagli esperti dell'Università di Milano-Bicocca: «Ci interessa che i risultati non siano viziati dalle suggestioni degli operatori – aggiunge Cavedon – ma che ci siano strumenti di valutazioni oggettiva, per questo somministriamo tre test in tre momenti diversi del percorso terapeutico utili per valutare se sono avvenuti cambiamenti, e di che tipo, per elaborare un modello di lavoro oggettivo. Speriamo di realizzare un protocollo replicabile in altri istituti».

«La rieducazione è importante in carcere e in tutti quei contesti in cui bisogna ritrovare la propria identità sana dopo aver commesso una trasgressione. In tante carceri si stanno facendo esperienze con animali – continua Cavedon – ma troppo spesso estemporanee. Il “fare” risveglia consapevolezze ma solo con l’aiuto di un professionista le azioni diventano poi riflessione».

Giacomo: l'allevatore che salvò un maiale

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Giacomo

Durante l'ultimo incontro del progetto sull'isola di Gorgona, al quale Kodami ha assistito, Cavedon ha tenuto una piccola lezione raccontando il caso di una bambina con difficoltà relazionali. Il consulente parla del percorso della bambina per accettare se stessa e delle barriere che il lavoro con lo psicoterapeuta e il cane della iaa sono riusciti a superare.

I detenuti ascoltano in silenzio, e nessuno prende la parola per molto tempo durante il dibattito. Tra loro c'è Giacomo, un omone dagli occhi grigi più riservato degli altri. Anche quando finalmente i suoi compagni intervengono, lui resta per lo più sulle sue. Prende la parola solo una volta, quando Cavedon chiede alla platea cos'è la rabbia, e Giacomo senza esitazione risponde: «Una bomba».

Giacomo da due anni si occupa della cura dei maiali, è arrivato a Gorgona poco dopo la chiusura del macello. Si muove senza difficoltà all'interno del porcile prendendo bonariamente in giro chi non è abituato all'odore e agli animali. «Io ci sto tranquillamente con loro – si vanta Giacomo – Appena arrivato mi hanno messo in guardia sul fatto che sarebbe stato difficile entrare nel loro recinto prima di dargli da mangiare. "Non puoi entrare", mi ripetevano. Ma io non ho mai avuto problemi, posso entrare anche se sono digiuni. Si limitano a urlare perché hanno fame. Sicuramente mi riconoscono».

La giornata di Giacomo è scandita da ritmi ben precisi: «La mattina inizio alle 7.30. Vengo dai maiali, gli do il cibo e pulisco. Poi ritorno in sezione dove alle 12 si va a mangiare nel refettorio. Alle due ritorno di nuovo nel recinto. C'è sempre qualcosa da fare e prima che me ne accorga la giornata è già finita. La sera poi faccio una partita a carte con gli amici. Così passa il tempo della pena che dobbiamo scontare ma lavorando con gli animali le ore scorrono più velocemente».

Fuori, nella sua Salerno, Giacomo era un allevatore di ovini e la macellazione degli animali era parte del suo lavoro: «Gli animali che non possono stare più in vita, devono essere macellati, perché soffrono», rimarca.

La riflessione di Giacomo apre a una domanda: ha senso per gli ex allevatori continuare a occuparsi degli animali? Secondo Bellettini sì: «Questa è l'occasione per concentrare l'attenzione più sul valore relazionale e di comunicazione con loro piuttosto che sullo sfruttamento. Così gli animali non vengono più viste come macchine per la produzione ma come individui».

L'esistenza di un legame tra Giacomo e i suoi maiali, le "macchine animali produttive" per antonomasia, è evidente nel racconto della sua quotidianità ma anche in un episodio particolare, avvenuto in un giorno che a casa sua sarebbe stato un momento di festa religiosa: «Era il giorno dell'Immacolata (8 dicembre ndr) e un maiale stava morendo ma io l'ho voluto salvare. L'ho bagnato con l'acqua e gli ho fatto i massaggi. Alla fine sono riuscito a rianimarlo, è stato un sollievo vederlo riprendersi. Adesso è ancora in vita», ricorda mentre sorride e indica uno dei maiali all'interno del porcile, indistinguibile dagli altri a un occhio che non sia il suo.

Giacomo ha trascorso in carcere solo un paio di anni, da scontarne ne ha ancora molti difronte a sé. Nonostante ciò, la dimensione del "prima" è lontana e inaccessibile, solo un desiderio lo spinge a parlare del tempo che ha preceduto Gorgona: «Mi piacerebbe tanto avere un cane. Ne avevo, prima. Il cane si accuccia vicino a te e in qualche modo ti capisce, mentre gli uomini ti tradiscono oppure ti mettono sempre a disagio per qualche cosa. Con gli animali non è così, loro non ti giudicano».

Singh e Tip: gli animali come ponte per l'integrazione

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Tip

La composizione della popolazione carceraria di Gorgona rispecchia quella nazionale che vede, in proporzione, una cospicua presenza di persone di origine straniera nelle carceri. Questa situazione è innescata da numerosi fattori, ma uno dei principali è la sistematica esclusione sociale di cui sono vittima gli stranieri ben prima di finire in carcere. Questa condizione viene poi esacerbata dalla ghettizzazione all'interno degli istituti di pena, come chiarisce Giulia Fruzzetti, una delle psicologhe coinvolte nel progetto: «Le relazioni tra le persone in carcere talvolta possono essere strumentali e legate a precise dinamiche interne, in presenza di attività con gli animali, invece, questo sistema viene a cadere. Gli animali fungono da terreno d’incontro comune tra le diverse culture rompendo i muri che si creano tra gruppi diversi all’interno dell’istituto».

Marocco, Albania, Cina, India sono le nazioni di provenienza dei detenuti stranieri coinvolti nel progetto dell'Isola Fenice. Tra loro c'è Tip, cinese nato in Birmania, l'odierno Myanmar.

Tip è in carcere dal 1999. Quando è entrato le Torri Gemelle erano ancora parte dello skyline di New York e il cellulare più diffuso era il Nokia 2110. Al suo ingresso era un uomo di 36 anni, quando ne uscirà sarà sulla soglia dei 60 e troverà un mondo nuovo ad attenderlo.

È arrivato a Gorgona dopo un lungo periodo trascorso nella struttura di Volterra, vicino Pisa, proprio per scontare l'ultima parte della sua pena, attratto dalla possibilità di lavorare all'aria aperta e avere un assaggio di libertà: «Ho fatto domanda per venire a Gorgona perché così ho un lavoro fisso e poi si sta fuori, liberi –  dice Tip allargando le braccia nella vigna di cui si prende cura – Qui si lavora con gli animali e quando l'ho saputo ho fatto subito istanza».

Tip si trovava già sull'isola quando il macello era ancora in funzione. «Era proprio qui – dice indicando un grande cubo bianco poco oltre i filari d'uva – C’erano tanti conigli, pecore, capre, maiali. Si ammazzavano soprattutto questi animali. Sono contento che abbia chiuso, stavo male, si ammazzava da tanti anni». Tra tutte le vittime del sfruttate dall'attività zootecnica di Gorgona, Tip si era legato a una specie in particolare:« Le mucche sono come noi, mi sentivo male quando le ammazzavano. Per noi cinesi la mucca, il cavallo, l’asino sono veri compagni di lavoro, quindi se li ammazzano mi fa male al cuore, come se fosse uno di famiglia».

L'esperienza del carcere ha cambiato radicalmente il suo modo di relazionarsi agli animali. «Ho sempre avuto animali in carcere. Prima non mi piacevano i gatti, ma qui ho cresciuto tanti mici, 10 sono quelli in vigna che si fanno accarezzare e 7 selvatici che non si fanno avvicinare e ai quali lascio solo da mangiare. Quando ero nel carcere di Volterra avevo un uccellino, era piccolo e non volava bene come i suoi fratelli. Quando è caduto dal nido un mio amico l’ha recuperato, l’ha portato da me e io l’ho cresciuto per mesi, fino a quando non è riuscito a volare».

A quel punto però Tip si è trovato davanti a un dilemma. liberarlo e perderlo, oppure lasciarlo in gabbia insieme a lui. «Alla fine gli ho dato la libertà, speravo che ogni tanto tornasse e fischiavo per richiamarlo dall'unica finestra senza sbarre della prigione, ma i passanti infastiditi si sono lamentati con la direzione e le guardie hanno sbarrato la finestra della sezione – ricorda Tip – Forse è tornato ma ha trovato la finestra chiusa, non l'ho mai saputo».

Da Volterra a Gorgona Tip si è portato dietro il suo amore per i volatili. Cammina per la vigna con la sua vanga indicando rapaci e passeriformi e raccontando quello che ha imparato da autodidatta sulle loro abitudini. Però in sezione non tiene più nessuno di loro.

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Singh

Poco lontano dalla vigna di Tip ci sono i recinti dei bovini. Qui Singh carezza sul muso un grosso toro nero: la sua mano è grande poco più di una narice dell'animale ma lui non ha paura. «Gli animali per me sono come degli amici – ci dice – Ho imparato come comportarmi con loro, così possiamo passare la giornata insieme. Amo gli animali, ce li ho proprio nel sangue».

Singh è indiano e si trova a Gorgona da 3 anni, Come gli altri anche lui di quello che era il suo "prima" parla solo in relazione agli animali: «Da 1 anno e 9 mesi mi occupo delle mucche, è bellissimo. Anche prima lavoravo con le mucche, nel suo paese. Sono nato in mezzo agli animali, sono cresciuto con loro e perciò adesso mi sento come a casa. Se qualche mucca sta male o è ferita me ne prendo cura. Mi sento felice con gli animali, imparo qualcosa di nuovo in mezzo a loro».

Anche lui era presente quando il mattatoio era in funzione: «Una volta mi ha chiamato una persona che lavorava al macello per aiutarlo ad ammazzare gli animali, io mi sono rifiutato. Stavo male a vedere una cosa del genere. Quando poi sono stato assegnato anche io al macello ho rifiutato di lavorarci».

Con la chiusura del mattatoio alcune mucche sono rimaste, compresa una già gravida aiutata a partorire proprio da Singh: «Appena ho iniziato a lavorare con le mucche ho aiutato una vitella a nascere con le mie mani. Il suo nome è Maria, adesso ha un anno e un mese. Le piacciono molto le mele e quando le vuole mi si avvicina. Ora che però è grande, sta sempre con la sua mamma e non si avvicina più come prima – racconta Singh – Ma le voglio sempre bene».

Un gatto per ricominciare: il futuro di Maicol

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Maicol e Joe

Maicol ha vent'anni ma non li dimostra, ha un fisico esile e un sorriso perennemente disegnato sul viso. Lui è tra i detenuti del gruppo di controllo, quelli che partecipano ai test e agli incontri ma non fanno attività con gli animali.

Maicol a Gorgona si occupa delle serre e dell'orto: «Guardo tutto io, dalle verdure ai frutteti, ma mi piacerebbe aiutare i ragazzi quando danno da mangiare agli animali o stare semplicemente con loro. Vengo dall'Alto Adige, al confine con l'Austria ed era un mio desiderio lavorare con le pecore, proprio per stare con gli animali e muovermi liberamente nella natura».

Maicol, al contrario degli altri, non ha difficoltà a parlare delle persone rimaste fuori dal carcere: «Da piccolo avevo un Beagle, e quando è morto mia mamma è stata così male che ha deciso di non prendere più dei cani. Per questo ho adottato dei gattini, ne abbiamo 7 a casa, ma ne ho uno anche qui». Non è possibile fermarlo, corre in cella a prendere un cucciolo nero di pochi mesi: «Lui è Joe, vive in cella con me. La madre l'ha rifiutato perché aveva troppi figli e poco latte. Lui è molto, molto intelligente. Ormai viviamo in simbiosi».

Maicol non è a fine pena, per lui la vita del carcere è solo all'inizio: «Adesso ho capito tante cose, voglio tornare a studiare – confida – Vorrei fare richiesta per spostarmi in una struttura dove posso prendere il diploma, magari all'istituto alberghiero». Il progetto di un nuovo inizio che gli dà un'unica preoccupazione: «Mi dispiace lasciare Joe – dice mentre lo accarezza – Quindi ho comunicato a mia mamma che se vuole l'ottavo gatto può venirmi a trovarmi, così lo posso affidare a lei».

«Ho gli animali nel sangue»: un'espressione che ricorre spesso nei racconti delle persone detenute a Gorgona. Nei loro discorsi gli animali sono associati anche a termini come «libertà» e «prima», parole che raramente usano in relazione a loro stessi. Secondo gli esperti è proprio nella funzione di mediatore dell’animale che il progetto trova la sua massima espressione negli istituti di pena: «Il detenuto abbandona il suo ruolo perché sa di essere guardato dall'animale per com’è, senza sovrastrutture – ci spiega la psicoterapeuta del progetto Anna Orlini – Fare interventi di Iaa con i detenuti dà accesso a una parte di loro che solitamente è preclusa quando entri come psicologa in un carcere. In genere il professionista si focalizza sul reato, ma qui è diverso, perché noi non quando entriamo a Gorgona non sappiamo che reato hanno commesso».

L'umanizzazione dei carcerati passa attraverso gli animali

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Nel 2022 sono 107 le persone morte in un carcere italiano, 57 di queste si sono tolte la vita. È quanto emerge dall’ultima relazione al parlamento fornita dal Garante nazionale dei detenuti ripresa dai volontari dell'Associazione Antigone. Un carcerato è esposto al rischio di suicidio 20 volte più di un cittadino libero: «L’OMS ha reso noto come i detenuti, se considerati come gruppo, abbiano tassi di suicidio più elevati rispetto alla comunità in quanto non solo all’interno degli istituti di pena vi è un numero maggiore di comportamenti suicidari, ma gli individui che subiscono il regime di detenzione presentano frequenti pensieri e comportamenti suicidari durante tutto il corso della loro vita», si legge nel report dell'Associazione.

carceri antigone
Elaborazione di Antigone su dati OMS e DAP

Coloro che si macchiano di reati violenti sono tenuti ai margini della società e deumanizzati, considerati come "persone non umane" e per questo poste al di fuori dei diritti godibili ed essenziali. Per loro si invocano gabbie senza possibilità di uscita, e l'idea di un carcere in cui i detenuti hanno libertà di movimento, anche se in un perimetro molto ristretto, ha spesso provocato vere sollevazioni popolari.

«Bestie» è il termine con il quale sulla cronaca e nel dibattito pubblico vengono più spesso apostrofati i carcerati, ai quali, in virtù del reato che hanno commesso si vorrebbe togliere ogni diritto, compreso quello alla vita. E non è un caso se i detenuti di Gorgona hanno rivisto se stessi negli animali che stavano conducendo al mattatoio dopo una vita di cattività.

«Gli animali sono stati salvati con un decreto di grazia, da lì si è capita l'importanza di dare un nome a quegli esseri viventi e di non considerarli solo come dei numeri, analogamente a quanto si fa in un macello o anche in un campo di sterminio», è la spiegazione della professoressa Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario che sta seguendo il progetto dell'Isola Fenice con l'università di Milano-Bicocca.

Il carcere dai più è inteso come luogo di punizione, e non come riabilitazione e reinserimento sociale. Per carenze strutturali e culturali, l'Italia oggi si trova ad avere tassi di recidiva tra i più alti d'Europa. Il 62% delle persone detenute nel 2021 era già stata in carcere almeno un'altra volta, il 18% anche 5 o più. «Alla luce di queste evidenze dobbiamo chiederci intendiamo il carcere nel modo giusto? – dice Buzzelli – Ha senso che continui ad essere un luogo di punizione? La rieducazione non violenta può avvenire in vari modi e il lavoro con gli animali ha il vantaggio di permettere il confronto con un altro essere vivente. Lo scambio di sentimenti ed emozioni diventa fondamentale quando si parla di luoghi di detenzione, anzi, di detenzione nella detenzione nel caso dell'isola carcere. All'interno di una contesto in cui si esercita sistematicamente la violenza e manca l’empatia, come si può parlare di rieducazione?».

Un modello di penitenziario radicale e innovativo potrebbe partire proprio dall'ultima isola carcere italiana. È ancora presto per dire se l'esperienza di Gorgona potrà aprire un dibattito sul rapporto esistente tra recidiva e violenze dietro le sbarre, ma al di là delle percentuali e delle finalità statistiche, è certo che Tip, Singh, Maicol e gli altri abbiano creato dei legami con gli animali, riconoscendo in essi un tramite per esprimere parti della loro vita ancora difficili da processare. Anche al di fuori è avvenuto qualcosa di innegabile: sull'isola è stato tracciato un nuovo modo di intendere l'individuo, animale o umano che sia.

Uno spettro aleggia però su Gorgona dopo il pensionamento del direttore Carlo Mazzerbo, come rivela Buzzelli: «La vicenda degli animali di Gorgona è iniziata vent'anni fa, e non abbiamo sempre avuto l’appoggio dell’amministrazione penitenziaria perché rivoluzionare le cose è sempre difficile, e soprattutto quando si tratta di animali si può incappare in una estrema superficialità».

Un futuro per la fenice Gorgona

La parola fine è ben lontana dall'essere stata scritta sulla storia della relazione tra persone e animali sull'isola di Gorgona. Il direttore della Casa circondariale di Livorno, Carlo Mazzerbo, è giunto infatti al termine del suo mandato, e la prossima direzione carceraria potrebbe fare un passo indietro rispetto alla tutela degli animali sull'isola.

Un timore dello stesso Mazzerbo: «Mi piacerebbe che a Gorgona si continuassero a rispettare i diritti di tutti e il diritto alla vita deve essere il primo. Ci sono le basi perché questa esperienza possa proseguire e arricchirsi, diventando un modello per gli istituto di pena che dovrebbero dare concretezza a questo valore».

Non sarebbe la prima volta che il macello viene chiuso per essere riaperto a distanza di pochi anni. I sigilli al mattatoio erano già stati apposti nel 2011 e poi tolti nel 2015. Una possibilità che la referente del progetto Bellettini rifiuta: «Il progetto in sé non è ancora concluso del tutto, anzi, ora dobbiamo ripensare a un progetto in cui gli animali possano essere resi ancora più protagonisti nel percorso riabilitativo delle persone ristrette. Quindi quello che io mi auguro è che Gorgona sulla base di questa esperienza possa diventare una piccola sede didattica e formativa anche per chi studia gli interventi assistiti con animali non convenzionali».

L'appello lanciato daBellettini, Mazzerbo, e da tutte le persone che hanno lavorato attivamente per smantellare il mattatoio è che l'esperienza dell'Isola Fenice possa continuare, e che soprattutto gli animali continuino a restare liberi, titolari di un diritto inalienabile per ogni essere vivente come quello alla vita.

Giornalista per formazione e attivista per indole. Lavoro da sempre nella comunicazione digitale con incursioni nel mondo della carta stampata, dove mi sono occupata regolarmente di salute ambientale e innovazione. Leggo molto, possibilmente all’aria aperta, e appena posso mi cimento in percorsi di trekking nella natura. Nella filosofia di Kodami ho ritrovato i miei valori e un approccio consapevole ma agile ai problemi del mondo.
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