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25 Settembre 2022
10:56

Gli stambecchi delle Dolomiti si stanno riprendendo dall’epidemia di rogna sarcoptica

I dati ottenuti dall'ultimo monitoraggio dello stambecco fanno ben sperare, ma sulle Dolomiti la specie è ancora in difficoltà. L'esperto del Parco delle Dolomiti Friulane spiega il perché.

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Sulle Dolomiti vivono circa 750 stambecchi. La stima è basata sui risultati dell'ultimo monitoraggio condotto tra Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Gli esperti sono soddisfatti e ritengono che questo dato abbia un valore positivo per la conservazione della specie.

Le popolazioni delle Alpi, infatti, negli ultimi anni hanno affrontato una terribile epidemia di rogna sarcoptica, una malattia causata da un acaro e capace di decimare intere popolazioni di stambecchi e camosci.

Tra i territori che hanno preso parte al monitoraggio vi è anche il Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, dove da oltre 20 anni il faunista Marco Favalli si occupa di queste tematiche: «Si tratta di un risultato positivo che arriva dopo un periodo difficile – spiega a Kodami l'esperto – In questi anni, infatti, abbiamo perso oltre il 70% di alcune popolazioni».

La rogna sarcoptica e la scarsa variabilità genetica

La rogna sarcoptica è una malattia nota da tempo nelle zone alpine. Venne segnalata per la prima volta nel 1949, quando arrivò in Friuli Venezia Giulia divenendo endemica nelle Alpi Carniche e nel Tarvisiano, poi ritornò con una seconda ondata a partire dal 1995 e nuovamente a partire dal 2008. A causarla è un acaro delle dimensioni inferiori a un millimetro, denominato Sarcoptes scabiei var. rupicaprae, capace di spostarsi nell'ambiente, grazie ai soggetti infestati, a una velocità media di circa 8 chilometri all'anno.

Con l'obiettivo di scambiare informazioni e conoscenze riguardo questa malattia, ma anche nel tentativo di confrontare le rispettive strategie gestionali e rendere più omogenea la raccolta di dati, è nato il gruppo interprovinciale che conduce il  monitoraggio annuale.

«Alcune popolazioni vengono colpite maggiormente dalla malattia, ma talvolta gli stambecchi appartenenti a popolazioni limitrofe sono soggetti a tassi di mortalità inferiori. Il motivo di questa variabilità non è ancora chiaro e rende determinante il dialogo tra i territori – spiega l'esperto – Svolgere il censimento in maniera coordinata, come nel caso di quest'anno, inoltre, permette di ottenere dati più precisi, ma anche di aumentare le conoscenze e le competenze di ogni Provincia e Regione».

La scarsa variabilità genetica dello stambecco italiano

Nonostante si tratti di una specie capace di resistere agli inverni duri delle zone rocciose in cui vive, lo stambecco (Capra ibex) in realtà è soggetto anche a importanti fragilità, amplificate, per quanto riguarda il nostro paese, dalla scarsa variabilità genetica. «La storia dello stambecco italiano è molto particolare e per capirne le fragilità bisogna fare un passo indietro di qualche secolo», spiega l'esperto.

In seguito all'invenzione delle armi da fuoco, infatti, lo stambecco rischiò fortemente l‘estinzione a causa dell'uomo. L'unica popolazione che resistette a quel periodo, fu quella che ancora oggi viene chiamata la "popolazione madre",composta da circa 100 individui che vivevano sul massiccio del Parco del Gran Paradiso, a cavallo tra la Valle d'Aosta e il Piemonte. Gli stambecchi che vivono oggi sulle Alpi centrali, sono di fatto i pronipoti dei pochi superstiti, trasferiti altrove attraverso diversi progetti di reintroduzione.

I periodi che determinano un'importante diminuzione numerica dei soggetti, vengono definiti a livello genetico "colli di bottiglia" e portano a importanti conseguenze sul benessere dell'intera specie. Durante questa fase, infatti, viene persa gran parte della variabilità genetica e, di conseguenza, la capacità di adattarsi ai cambiamenti.

«Reintrodurre soggetti resistenti potrebbe ridurre l'impatto della malattia»

Se da una parte i progetti di reintroduzione hanno permesso allo stambecco di tornare a diffondersi sulle Alpi, secondo Favalli però, non sono stati svolti ovunque con la perizia necessaria.

«La mancanza di attenzione nei progetti di reintroduzione può portare ad un isolamento eccessivo – spiega il faunista – Questo fattore può diminuire ulteriormente la capacità del sistema immunitario di rispondere all'attacco da parte di patogeni, come quello della rogna sarcoptica, causando così un'alta mortalità in caso di epidemia, come abbiamo visto accadere in questi anni».

Per fare in modo di aumentare la resistenza dello stambecco, secondo l'esperto è possibile intervenire attivamente. «Potremmo fare affidamento sulla reintroduzione, nelle zone più colpite, di soggetti prelevati da popolazioni particolarmente vive, come ad esempio quella della zona del Montasio, dove a rogna è arrivata da moltissimi anni e ora i soggetti sono resistenti – conclude l'esperto – Un maggior numero di animali resistenti alla malattia permette di ridurne l'impatto sull'intera popolazione».

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Claudia Negrisolo
Educatrice cinofila
Il mio habitat è la montagna. Sono nata in Alto Adige e già da bambina andavo nel bosco con il binocolo al collo per osservare silenziosamente i comportamenti degli animali selvatici. Ho vissuto tra le montagne della Svizzera, in Spagna e sulle Alpi Bavaresi, poi ho studiato etologia, sono diventata educatrice cinofila e ho trovato il mio posto in Trentino, sulle Dolomiti di Brenta. Ora scrivo di animali selvatici e domestici che vivono più o meno vicini agli esseri umani, con la speranza di sensibilizzare alla tutela di ogni vita che abita questo Pianeta.
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