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31 Agosto 2021
16:04

Educazione del cane, ha (ancora) senso parlare di metodo gentile?

Quando si parla di metodo gentile nell’educazione del cane si fa riferimento a una specifica metodologia di lavoro, secondo cui tutti i comportamenti desiderati possono essere insegnati unicamente attraverso il rinforzo positivo. Nato inizialmente come un innovativo metodo di addestramento, si è poi diffuso anche più in generale in ambito educativo e rieducativo ed è ampiamente utilizzato e insegnato da moltissimi professionisti. Vediamo che cos'è, come funziona e quali sono le differenze con il metodo classico.

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Non tutti sanno che quando si parla, nell’educazione del cane, di “metodo gentile” non si fa riferimento a un generico e astratto concetto di gentilezza nei modi o nell’uso della voce, ma ad una specifica metodologia di lavoro, basata su precisi presupposti teorici. Nato inizialmente come un innovativo metodo di addestramento, si è poi diffuso anche più in generale in ambito educativo e rieducativo ed è ampiamente utilizzato e insegnato da moltissimi professionisti.

Un po' di storia sul metodo gentile

Se vogliamo trovare un precursore e un pioniere in questo campo certamente uno dei primi nomi cui fare riferimento è quello di Karen Pryor, addestratrice americana di delfini e madre di quello che è ancora oggi uno dei più diffusi e applicati metodi di addestramento, ovvero il clicker-training.

In realtà le sue teorie non erano nuove, ma si fondavano su concetti già noti e conosciuti da alcuni decenni tra gli studiosi del comportamento. E' suo tuttavia il merito di aver posto la questione al centro del dibattito sull’addestramento di animali con un metodo che portava oggettivi risultati.

Il quadro teorico su cui le osservazioni di Pryor si basavano è quello del così detto behaviorismo (o comportamentismo), studiato già a partire dagli anni 40 del secolo scorso dallo scienziato Skinner.

Cos'è il metodo gentile?

Il lavoro di Pryor, iniziato sui delfini, ha dato poi origine anche nel mondo della cinofilia a una vera e propria rivoluzione che, a partire dagli anni 80 e 90, si è diffusa dagli USA in tutto il mondo e anche in Italia, cambiando completamente il modo di lavorare di numerosissimi professionisti e scuole di formazione.

Il suo metodo, infatti, si definiva force free (libero dall'uso della forza) e andava a contrapporsi in maniera radicale ad altre modalità che fino a quel momento erano andate per la maggiore. Se fino ad allora nell’addestramento di animali si era fatto ampio uso non soltanto di premi, ma anche di punizioni, coercizione e stimoli negativi, Pryor teorizzò che non vi è alcun bisogno di tutto ciò e che tutti i comportamenti desiderati possono essere insegnati unicamente attraverso il rinforzo positivo.

Come utilizzare il metodo gentile nell'educazione del cane?

Secondo la teoria di Pryor, il modo migliore per insegnare un comportamento nuovo o desiderato è quello di farlo seguire immediatamente da una ricompensa. Inoltre in tal modo è possibile non solo educare l'animale insegnandogli tutti i comportamenti "corretti", ma anche correggere quelli "sbagliati" o indesiderati esclusivamente con l'uso di premi. In questi casi la strategia non è quella di ricorrere a punizioni al fine di inibirli, ma semplicemente ignorarli e premiare comportamenti alternativi, così che, secondo la sua teoria, il cane arriverà a preferirli e li attuerà in quanto portatori di un effetto gradito.

Come funziona il metodo gentile

I principi sui quali tale rivoluzione si basava erano pochi e molto semplici. Anzitutto quello che se un animale trova una gratificazione per un dato comportamento sarà portato a ripeterlo quando si presenteranno circostanze simili; inoltre vi è il fatto che se l’apprendimento è basato sul piacere e sulla ricompensa, anziché sulla paura di una conseguenza sgradita, esso potrà essere più pronto e veloce; infine che, attraverso il principio della gratificazione, si può condurre l’animale ad un piacere nell’imparare nuove cose e, dunque, ad una maggiore voglia di collaborare.

I cambiamenti nella società

Oltre a questo il metodo gentile si trovava anche ad incontrare degli indubbi cambiamenti etici, in atto nella società, che portavano a considerare certi comportamenti verso il cane sempre meno accettati o accettabili, sia da parte dei componenti del gruppo familiare che anche dei professionisti del settore.

Molte persone, sempre più portate a considerare i cani come membri a tutti gli effetti della propria famiglia e a creare legami basati sull’affetto e la protezione, hanno infatti mostrato una crescente riluttanza nell’utilizzare metodi coercitivi ed impositivi, cercando strade diverse e rivolgendosi a professionisti in grado di proporre alternative più affini al proprio modo di sentire e di vivere la relazione.

Differenze e vantaggi rispetto al metodo classico (o tradizionale)

A differenza del metodo classico o tradizionale, il metodo gentile esclude a priori l’utilizzo di violenza e coercizione. Tali pratiche erano ampiamente accettate nella precedente cultura che (seguendo la cosiddetta "teoria del capobranco") vedeva il rapporto impostato secondo una rigida concezione gerarchica. Il cane doveva, in altre parole, ricoprire un ruolo completamente subordinato e questo giustificava in molti casi anche l'utilizzo di pratiche violente o vessatorie.

Un'altra differenza tra metodo classico e metodo gentile è che quest'ultimo pone al centro dell'attenzione l'importanza della collaborazione, mettendo così in luce un diverso modo di impostare la relazione che per la prima volta dava importanza anche al punto di vista del cane e alla sua capacità di scegliere.

I limiti del metodo gentile

Tuttavia quello delineato dal metodo gentile resta un approccio addestrativo. In altre parole il suo obbiettivo centrale non è quello tutelare il benessere in quanto tale, ma di insegnare con successo dei particolari comportamenti. Inoltre esso si rifà ad una determinata cornice teorica, ovvero quella behaviorista. Secondo questa impostazione il cane non viene visto come dotato di una propria soggettività e individualità, ma come simile a una macchina, il cui funzionamento dipende esclusivamente dal modo in cui viene programmata e utilizzata. In pratica, secondo il behaviorismo, i comportamenti dei nostri amici dipendono dagli stimoli esterni e non è tanto importante indagare le loro emozioni o i loro stati d’animo, ma solo ciò che è visibile. E se ci si trova di fronte ad un comportamento indesiderato non ha grande importanza domandarsi da cosa esso derivi, ma bisogna soltanto agire sull’ambiente affinché ne venga gratificato e rinforzato uno alternativo.

Questa teoria, nata in laboratori universitari, è stata nel tempo ampiamente confutata da molti punti di vista. Anzitutto l’etologia ha dimostrato che ogni specie animale è dotata di un proprio repertorio comportamentale innato, che deriva dall’evoluzione. Dunque molti comportamenti si manifesteranno indipendentemente dall’ambiente e non potranno essere modificati a nostro piacimento semplicemente premiandone degli altri. Si è poi notato che, a differenza di un laboratorio, la vita reale è estremamente più complessa e le informazioni che un individuo riceve dal mondo possono interferire in diversi modi sui processi di apprendimento. Infine le più recenti ricerche scientifiche hanno messo più che mai in luce il concetto di individualità, dato dalla storia personale di ogni soggetto e dal suo mondo motivazionale ed emozionale. Questo fa sì che ognuno risponda diversamente agli stimoli esterni e produca risposte completamente soggettive, rendendo così necessari, tanto in ambito addestrativo che educativo o rieducativo, percorsi assolutamente individualizzati sia nelle modalità che negli obbiettivi specifici.

Superare il metodo gentile?

In conclusione si può dire che il cosiddetto “gentilismo” può essere considerato un approccio superato tanto nei suoi presupposti teorici quanto nelle tecniche di lavoro. Inoltre il metodo gentile, per quanto abbia in passato rappresentato un progresso nel modo di trattare gli animali in campo addestrativo, è caratterizzato da obbiettivi limiti quando non pone pienamente al centro la soggettività degli individui o, come avveniva in passato (e in parte avviene ancora oggi), anche i loro diritti. La stessa Pryor, nel suo lavoro coi delfini, sembrava interessata più al fatto che, col suo metodo, fosse possibile migliorare le loro performance che non a quanto fosse giusto o meno voler insegnar loro certi esercizi o decidere di relegarli in una vasca per diventare delle attrazioni.

Le attuali conoscenze scientifiche hanno dimostrato che il comportamento animale è frutto di una interiorità che, nella sua manifestazione esterna, rappresenta sempre la ricerca di uno stato di benessere, ma che può altresì dimostrare malessere e disagio. I comportamenti “giusti”, dunque, non dovrebbero mai essere valutati soltanto dalla prospettiva di ciò che è meglio per noi, o di quel che riteniamo possibile ottenere attraverso qualche metodo di lavoro, ma anche e soprattutto di ciò che fa star bene loro.

Più che ad un astratto concetto di “gentilezza” dunque, che sarebbe comunque sempre auspicabile in ogni ambito della  nostra vita e non soltanto verso gli animali, in un’ottica di reale rispetto per i nostri amici forse sarebbe più utile fare riferimento ad altri termini per caratterizzare metodi e approcci. Tra questi potremmo sicuramente inserire intelligenza, relazione, accreditamento, integrazione, comprensione della diversità e, soprattutto, la consapevolezza che ogni individuo e il suo modo di stare al mondo sono sempre unici e irripetibili!

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Francesco Cerquetti
Esperto in etologia applicata e benessere animale
Laureato in Filosofia a partire dal 2005 ho cominciato ad appassionarmi di cinofilia approcciando il mondo dei canili. Ho conseguito il Master in Etologia Applicata e Benessere animale, il titolo di Educatore Cinofilo e negli IAA.
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