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17 Aprile 2023
9:00

Come avviene l’apprendimento negli animali

L’apprendimento si fonda su modificazioni adattative del comportamento individuale, conseguenti all’esperienza. Gli animali possono apprendere utilizzando diversi sistemi.

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Membro del comitato scientifico di Kodami
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Per un animale, apprendere significa essere in grado di stabilire relazioni causali tra eventi, e modificare in modo stabile e continuo nel tempo il proprio comportamento in base ad esse. E come fa ad apprendere? Il primo ingrediente per un buon apprendimento è rappresentato dai geni, che si devono attivare. Da soli, però, non bastano. I geni hanno bisogno di interagire con l’ambiente, e possono esprimersi in modo diverso a seconda delle caratteristiche dell’ambiente corporeo (interno) ed extra-corporeo (esterno).

Poi servono i neuroni, che sono le cellule responsabili del flusso di informazioni attraverso il sistema nervoso centrale e producono una serie di sostanze chimiche diverse, i neurotrasmettitori. Divisi in gruppi, ciascuno specializzato nella secrezione di particolari neurotrasmettitori, i neuroni indirizzano le informazioni alle diverse parti del cervello.

Nel cervello di un uomo adulto sono presenti circa 86 miliardi di neuroni, in quello di un cane, mediamente, oltre 2 miliardi e nel cervello di un gatto se ne contano poco più di un miliardo. I neuroni si adattano alle nuove esperienze, e possono cambiare a causa dell'esposizione ai diversi ambienti, per supportare l'atto dell’apprendimento: questo adattamento può continuare per l'intera durata della vita di un animale e prende il nome di “plasticità”.

Gli animali possono apprendere utilizzando meccanismi associativi, non associativi e cognitivi. Tuttavia, è bene ricordare che queste definizioni sono arbitrarie: nell'ambiente naturale un individuo modifica costantemente il proprio comportamento in risposta alla raffica di segnali ambientali che riceve ed è quindi difficile dire con certezza quale meccanismo stia realmente utilizzando.

Apprendimento non associativo

Si riconoscono tre tipi di apprendimento non associativo: abituazione, disabituazione e sensibilizzazione. Cosa fa una lumaca se proviamo a toccarla? Si ritrae! La lumaca fa così perché non ci conosce. Questo, infatti, è il suo comportamento di difesa di fronte a stimolazioni nuove. Se però ripetiamo gentilmente quell’azione, la lumaca si abitua a noi, e smette di ritrarsi. Se invece siamo un po’ troppo indelicati, finisce per vederci realmente come un pericolo, e si sensibilizza e allora basterà anche solo sfiorarla appena, o presentarle un qualsiasi altro stimolo, anche neutro, per provocare la sua reazione.

L’abituazione è molto utile, perché permette all’animale di filtrare le informazioni irrilevanti e smettere di rispondere ad esse, evitando un inutile dispendio di tempo, energie e attenzione. Ora sappiamo perché gli spaventapasseri diventano molto in fretta comodi posatoi per gli uccelli che, invece, dovrebbero tenere alla larga! Un cambiamento nella stimolazione, ad esempio un aumento dell’intensità o della perniciosità, può comunque interrompere l'assuefazione, creando disabituazione. La sensibilizzazione è una forma più complessa di apprendimento: ed è anch’essa molto utile, poiché permette all’animale di imparare a rafforzare le proprie risposte difensive.

Apprendimento associativo

Se gli stimoli che innescano la sensibilizzazione continuano a ripetersi e segnalano un evento, sia esso piacevole o spiacevole, vengono selezionati dall’animale, per il quale diventano oggetto di attenzione continua, portandolo alla creazione di un’associazione stabile. Due sono le classiche categorie di apprendimento associativo: per condizionamento classico e per condizionamento operante. Il condizionamento classico è quello che ha fruttato addirittura il premio Nobel, nel 1904, al medico fisiologo russo Ivan Petrovic Pavlov. Nei suoi studi sui processi digestivi, il condizionamento classico è quello in cui i cani imparano a esprimere un riflesso, ossia una risposta automatica e involontaria, in presenza di uno stimolo neutro, ossia uno stimolo che, naturalmente, non la evocherebbe.

In pratica i suoi cani iniziavano a sbavare (riflesso) alla sola vista di una luce (stimolo neutro), ma non da subito, solo se questa era stata precedentemente presentata, per un certo numero di volte, insieme alla ciotola del cibo (stimolo incondizionato). Oggi sappiamo che con questo sistema gli animali apprendono molto più di una semplice associazione stimolo-stimolo (luce-pappa): oltre a sbavare, infatti, i cani di Pavlov guaivano, scodinzolavano, abbaiavano, tutti comportamenti anticipatori che ci dicono che avevano appreso che tra quei due stimoli esisteva una relazione predittiva. Difatti, ciò che più conta affinché un animale apprenda, è che lo stimolo neutro segnali in modo affidabile lo stimolo incondizionato, così da permettergli di crearsi un’aspettativa.

Oggi sappiamo pure che questa modalità di apprendimento non coinvolge solo i riflessi, ma anche sequenze d’azione su base innata o risposte apprese in precedenza, e che l’associazione può avvenire non solo tra due eventi, ma anche tra un evento e una reazione emotiva e tra un evento e un ricordo. Il condizionamento operante, formulato dallo psicologo statunitense Burrhus Frederic Skinner partendo da quello che il collega Edward Lee Thorndike aveva definito “apprendimento per prove ed errori”, si fonda sul presupposto che l’animale è in grado di creare un’associazione tra uno stimolo e una sua risposta grazie alle conseguenze di quest’ultima. Un gatto chiuso in una gabbia cerca il modo di uscire, provando diversi comportamenti tra quelli che gli vengono naturali (graffiare, mordere, strusciarsi col muso, etc.), e vi riesce quando finalmente trova la risposta corretta.

La prima volta accade per un colpo di fortuna, ma se la circostanza si ripete, nel tempo diventa sempre più veloce e sistematico, sino a non sbagliare più. A quel punto, cioè, avrà imparato a modificare il suo ambiente, ricercando attivamente il comportamento che gli fornisce la massima gratificazione (la libertà!). Di nuovo, oggi sappiamo che gli animali si aspettano che le loro risposte abbiano certe conseguenze e, se queste cambiano, anche le loro risposte cambiano, adeguandosi al contesto. Pensiamo al nostro cane in una interazione sociale: le reazioni degli altri cani modellano il suo comportamento. Se la mia Tea invita al gioco montando un altro cane ma, così facendo, ottiene solo di essere evitata e guardata meno, sarà portata a cambiare comportamento, sino ad ottenere quello che le permette di ottenere il desiderato rinforzo sociale.

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Apprendimento cognitivo

È un altro psicologo statunitense, Edward Chace Tolman, ad aggiungere un tassello al condizionamento operante, sostenendo che i meccanismi che lo regolano possono essere spiegati più efficacemente considerando i fattori cognitivi. Secondo Tolman, l’apprendimento, per avvenire, non ha bisogno di una conseguenza che agisca da rinforzo. Il rinforzo è utile solo perché si manifesti un dato comportamento appreso, non perché lo si apprenda. Ciò avviene perché quel rinforzo provoca una modificazione a livello cognitivo, ed è questo stato mentale che poi porta l’animale a esprimere il comportamento.

In parole più semplici, il rinforzo crea la motivazione, non l’apprendimento. In sua assenza, questo avviene lo stesso, solo che può rimanere latente. Se mettiamo un topolino in un labirinto e all’uscita, sin dal primo giorno, trova una manciata di semini, dopo circa 10 giorni quel topolino infilerà l’uscita in pochi secondi, e senza sbagliare strada. Non trovando nulla di interessante, esce lo stesso, ma ci impiega molto più tempo. Se, tuttavia, al decimo giorno, compaiono i gustosi semini, ecco che lo vedremo imbroccare la strada giusta e pure velocemente, al pari di quello che, per tutto quel tempo, ha sempre ricevuto la gradita ricompensa. Cosa ci dice questo? Ci dice che il furbetto ha appreso da solo a riconoscere la strada giusta per la libertà, solo che, per fagli venire voglia di mostrarlo, ha avuto bisogno di un incentivo!

Sempre secondo Tolman, gli animali, poi, sono capaci di costruirsi la cosiddetta mappa cognitiva, ossia l’immagine mentale dello spazio, o della realtà, in cui poter risolvere i propri problemi. Tutti gli animali che sono in grado di crearsi una mappa cognitiva hanno l’insight, cioè quella capacità di apprendere grazie a un’intuizione, a quell’illuminazione che arriva quando si reinterpreta improvvisamente uno stimolo, una situazione o un evento per produrre una soluzione non ovvia a un problema. Un po’ come quella parola che a un tratto non riusciamo proprio a ricordare, e ci torna in mente solo più avanti, all’improvviso, mentre siamo in tutt’altre faccende affaccendati. Non sappiamo quanti animali abbiano l'insight, ma tra questi ci sono molti mammiferi, delfini, cani, gatti, scimmie, molti uccelli – come i corvi e i pappagalli, i grilli e altri insetti sociali. Anche il polpo ce l'ha. In genere, si ritiene che gli animali che sognano abbiano la capacità di insight, perché sognare è creare un mondo dentro la propria mente.

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Search image

La maggior parte dei predatori ha più tipi di specie preda e, perché il foraggiamento sia efficiente, deve saperle distinguerle tra quelle disponibili, prendendo decisioni rapide. Questo vale soprattutto quando ha a che fare con prede criptiche, che sono quelle più difficili da scovare. E invece… più una specie preda criptica è comune, più facilmente il predatore – poniamo un rapace come l’albanella – la vede, perché inizia a trascurare quelle più rare, prestando maggiore attenzione a quelle più frequenti. Questo è possibile perché stampata nella mente dell’albanella si trova quella che le etologhe e gli etologi chiamano “search image”.

Si tratta di un bias cognitivo che porta alla ricerca selettiva di un particolare tipo di preda criptica. L’albanella fa affidamento su una propria percezione innata, che appartiene a quel bagaglio di competenze e conoscenze che caratterizzano la sua sapienza di specie, ma questa è influenzata dalle esperienze visive che essa vive da piccola, che facilitano appunto la costruzione di tali immagini di ricerca. La capacità cognitiva di discriminare i segnali legati alla preda, poi, si sviluppa per tutta la vita.

I predatori come l’albanella imparano a focalizzare l'attenzione sul tipo di preda criptica più frequentemente incontrato nelle loro ricerche più recenti. Riescono così a far fronte alla variabilità spaziale e temporale delle loro prede, sfruttando, invece che rigide risposte predeterminate, una ben più utile plasticità comportamentale. La formazione della search image è attribuibile a un meccanismo basato sulla focalizzazione dell'attenzione, anche se qualche forma di condizionamento potrebbe contribuire.

L’apprendimento per osservazione e imitazione

L’apprendimento per osservazione e imitazione è un apprendimento complesso, basato sull’associazione ma anche sull’attivazione di specifici processi cognitivi. In particolare, l’attenzione, cioè la capacità di notare qualcosa nell’ambiente, la ritenzione, che permette di ricordare ciò che è stato notato, la riproduzione, ossia la realizzazione dell’azione notata e la motivazione, che fornisce lo stimolo a riprodurre quell’azione. È un apprendimento sociale, che avviene per osservazione, in assenza di un rinforzo evidente.

Funziona così: un individuo osserva un altro individuo mentre compie un’azione, la quale gli provoca un effetto. Tanto basta a far compiere la stessa azione all’osservatore, anche quando il suo modello è assente, e questo ci insegna che per apprendere non è necessario fare esperienza “in prima persona” e ricevere direttamente il rinforzo; si impara anche soltanto osservando un modello – e il feedback che esso riceve – e cercando di imitarlo.

Bibliografia

Thorpe, W. H. (1956). Learning and instinct in animals. Harvard University Press.

Gaddum, J.H. (1966) The Neurological Basis of Learning, Editor(s): Derek Richter,

Aspects of Learning and Memory, Butterworth-Heinemann, pp. 38-72.

Kirsch, I., Lynn, S. J., Vigorito, M., & Miller, R. R. (2004). The role of cognition in classical and operant conditioning. Journal of Clinical Psychology, 60(4), 369–392.

Nel 2003 mi laureo in Medicina Veterinaria. Dal 2008 sono ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegno Etologia Veterinaria e Benessere Animale. Studio il comportamento degli animali e la relazione uomo-animale.
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