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3 Aprile 2021
11:00

Carne coltivata in laboratorio: perché deve essere un’alternativa

SI stima che nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9 miliardi, con conseguente crescita nella richiesta di cibo, soprattutto per quanto riguarda le proteine animali. Una possibile risposta alla domanda crescente potrebbe essere la carne in vitro, o anche chiamata carne pulita. Vediamo com'è fatta e come si produce.

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Professore universitario di Fisiopatologia veterinaria
Articolo a cura del Prof. Giuseppe Borzacchiello
Medico Veterinario e Professore universitario, esperto di patologia animale
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La popolazione mondiale aumenterà e nel 2050 raggiungerà la cifra di 9 miliardi.Le proiezioni stimano dunque un aumento della richiesta di cibo soprattutto di proteine animali. Insomma avremo bisogno di più carne per tutti. Un sfida globale alla quale bisogna essere pronti coniugando sostenibilità, produzione e profitto.

Una possibile risposta può venire dalla carne prodotta in vitro, detta anche carne coltivata o carne pulita, ovvero dalle tecnologie che prevedono la produzione di tessuto muscolare animale in laboratorio. Una sfida che in qualche parte del mondo è già realtà. Vediamo da vicino di che cosa si tratta.

Com’è fatta la carne coltivata in vitro

La carne sia essa di bovino, pollo o altra specie non è altro che muscolo animale mescolato ad una piccola quantità di tessuti cosiddetti interstiziali. Dunque, in laboratorio bisogna partire dalle fibrocellule muscolari. L’approccio più promettente è l’impiego di cellule staminali ovvero di cellule che hanno la capacità “infinita” di duplicarsi dando luogo a cellule muscolari già differenziate. Tra i vari tipi di cellule staminali (prelevate comunque da un animale vivo mediante una biopsia) le più promettenti sono quelle cosiddette miosatelliti (cellule staminali adulte) per quanto anche cellule staminali provenienti da embrioni possono essere utilizzate allo scopo.

Ma le cellule muscolari per crescere in laboratorio hanno bisogno di un mezzo di coltura in cui ci siano sostanze chimiche (fattori di crescita) che favoriscano la replicazione e che normalmente sono fornite dall’aggiunta di siero (parte liquida del sangue) fetale bovino. A questo si devono aggiungere antibiotici per limitare le proliferazioni batteriche e fungine. Questo aspetto rimane critico perché per improntare una produzione su larga scala bisogna utilizzare quantità importanti di siero animale che è molto costoso e i tentativi di sostituire il siero animale per ora non sono completamente riusciti.

La carne però non è solo muscolo e le cellule per moltiplicarsi e crescere hanno bisogno di una rete su cui farlo (scaffold). Al momento le limitazioni tecnologiche fanno sì che lo spessore della carne coltivata sia ancora molto molto sottile.

Come si produce in vitro la carne?

Finora esperimenti in questo senso su piccola scala sono più che riusciti ma la sfida è il passaggio alla produzione “industriale” su larga scala. Le sfide tecnologiche sono quelle di identificare una linea cellulare che si autoreplica limitando o annullando la necessità di dover effettuare biopsie da animali vivi. Inoltre, è necessario trovare fonti di siero nutriente per le cellule in vitro ma che sia a basso costo e soprattutto, non derivi da animali vivi. Una soluzione percorribile è il bioreattore che favorisce non solo la crescita delle cellule muscolari ma permette gli scambi gassosi e di nutrienti. La produzione può essere centralizzata ma anche come prevede l’azienda Future Meat su scala locale. Ovvero, si trasferiscono piccoli stock di cellule che nei bioreattori di quartiere possono produrre solo le quantità necessarie per gli abitanti di quel luogo. Un modello futuribile da non trascurare anche per impedire il monopolio della produzione da parte di multinazionali.

Quindi siamo arrivati alla produzione della fettina di carne in vitro. È comparabile a questo punto a quella originata in vivo? In realtà, mancano ancora dei passaggi. Infatti, le qualità organolettiche della carne derivano innanzitutto dai processi di maturazione post-mortem e il suo sapore deriva anche dal grasso, tessuto interstiziale e sostanze aromatiche (oltre 750) che derivano anche dalla dal cibo di cui si è nutrito l’animale.

L’aspetto sensoriale dell’hamburger di laboratorio e perché è importante andare avanti

L’aspetto sensoriale dell’hamburger di laboratorio è certamente la sfida più difficile perché attiene alla riproduzione di una gamma molto complessa di fattori da riprodurre in vitro. La strada, da questo punto di vista, ci sembra in salita. Inoltre, i costi di produzione su larga scala vanno ridotti anche se attualmente nel mondo esistono molte start up che hanno raggiunto ottimi risultati.

Le motivazioni per andare avanti sono molteplici. Innanzitutto quella etica. Smetteremo di macellare animali o ne ridurremo sicuramente il numero. Questo significa immaginare un futuro con un maggior numero di allevamenti di tipo estensivo. Se questo sarà lo scenario si saranno fatti passi da gigante nella direzione del benessere animale e della sostenibilità. Infatti, le emissioni di gas serra provenienti dagli allevamenti si ridurranno e ne beneficerà anche il clima. Inoltre, si ridurranno i casi di malattie infettive legate alla contaminazione delle carni (es. Salmonellosi) per quanto bisognerà implementare e rendere disponibili livelli di Vitamina B12 e ferro che il muscolo animale forniscono naturalmente.

Non dimentichiamo che il cibo però spesso si carica di valori simbolici e culturali e come diceva il famoso antropologo Levi-Strauss alcuni cibi sono “buoni da pensare” altri “cattivi da pensare”. Insomma, c’è da affrontare la sfida della percezione comune dell’hamburger artificiale. Non sarà semplice. La comunicazione giocherà un ruolo fondamentale e la dizione “hamburger pulito” rende il prodotto più facilmente accettabile rispetto a “hamburger prodotto in laboratorio” o “hamburger artificiale”. Infine, bisognerà anche tenere conto degli enti regolatori (FDA,EFSA etc.) che dovranno dare una cornice di definizione di questo prodotto che ha l’ambizione di diventare il cibo per un futuro più green, sostenibile e in armonia con gli animali.

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Giuseppe Borzacchiello
Professore universitario di Fisiopatologia veterinaria
Sono professore universitario di ruolo presso il Dipartimento di Medicina veterinaria e Produzioni animali dell’Università degli studi di Napoli Federico II e titolare della cattedra di Fisiopatologia degli animali domestici. Ho insegnato in diverse Università italiane, corsi di perfezionamento e master universitari. Appassionato di animali e di cani in particolare, mi occupo da oltre vent’anni di ricerca scientifica nel campo della patologia spontanea degli animali domestici e di tematiche inerenti l’oncologia comparata.
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