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5 Gennaio 2022
15:30

La variante Omicron potrebbe essere stata causata da un evento di spillback

Un evento di spillback, cioè un salto di specie inverso, potrebbe essere la causa della nascita di nuove varianti come la famigerata Omicron sudafricana. Come mai? Abbiamo chiesto il parere di Marco Gerdol.

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Come si è sviluppata Omicron, la nuova variante di Sars-CoV-2 che negli ultimi mesi ha preso il sopravvento in buona parte del Mondo? Una delle ipotesi più accreditate sembra propendere per un suo precedente sviluppo in altre specie animali.

L'interazione con altre specie sarebbe alla base quindi non solo dell'avvento del virus nella sua forma originale, attraverso un salto di specie, in inglese detto "spillover", ma anche della nascita di varianti.

Una recente ricerca portata avanti dall'Accademia cinese delle Scienze, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Genetics and Genomics, ha indagato sulle dinamiche che hanno visto l'emergenza di questa nuova linea virale in Sudafrica. I primi risultati sembrano suggerire che il nuovo virus sia frutto di un evento di spillback, cioè una sorta di "ritorno di fiamma" che prevede un precedente salto di specie da uomo a roditori, probabilmente topi, una fase di accumulo di mutazioni favorevoli all'infezione dell'ospite e successivo ritorno negli esseri umani. Insomma, il virus sarebbe rimbalzato tra umani e topi diventando più infettivo.

Ma come si è riusciti ad arrivare a tali conclusioni? Lo abbiamo chiesto a Marco Gerdol, ricercatore in genetica presso l'Università di Trieste, da tempo impegnato in favore di una corretta informazione riguardante le tematiche sanitarie degli ultimi anni tramite il suo profilo facebook e la pagina Pop Medicine.

La grande diversità di Omicron: tre ipotesi possibili

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«Partiamo da un fatto importante: Omicron mostra un grande gap evolutivo rispetto alle altre varianti che si sono diffuse nell'ultimo anno. Le varie linee virali derivano le une dalle altre proprio come i discendenti di una famiglia. Grazie allo studio delle differenze genetiche tra le varianti è possibile ricostruire i loro rapporti di parentela ma piazzare Omicron in questo "albero genealogico" non è semplice: sono molte le mutazioni presenti nel suo genoma che sembrano comparse dal nulla e che la differenziano – spiega Marco Gerdol – Una situazione in verità osservata anche in alfa e gamma, tuttavia tale differenza è accentuata dal fatto che il livello di monitoraggio e tracciamento è ora altissimo (abbiamo sequenziato oltre sei milioni di genomi virali) in tutto il mondo, mentre un anno fa era limitato».

Dove si è nascosto quindi il virus prima di mostrarsi in questa sua nuova "veste" tanto virulenta? «Sono tre le ipotesi più accreditate a riguardo. Secondo la prima, il virus si sarebbe diffuso in una popolazione umana rimasta isolata per un certo periodo di tempo, accumulando varie mutazioni ed infine ritrasmessa al resto della popolazione globale tramite un secondo recente contatto». Ma questa spiegazione non convince molto il genetista: «Sono pochissime le popolazioni rimaste isolate oramai».

La seconda ipotesi vede invece il virus accumulare mutazioni all'interno di un paziente immunodepresso, purtroppo casi comuni in Africa meridionale dove il virus si è diffuso inizialmente. «In tali soggetti Omicron può essere rimasto per mesi, incontrando una risposta immunitaria non efficace che le ha permesso di accumulare variazioni».

Ma la trasformazione potrebbe essere avvenuta anche tramite l'infezione di un'altra specie animale ed è questa la terza ipotesi, detta dello "spillback", su cui si è focalizzata la linea di ricerca dell'Accademia cinese delle Scienze. «Molte delle mutazioni che osserviamo in Omicron – sottolinea il ricercatore – sono già state descritte in casi in cui il virus è stato trovato in altri animali».

L'ipotesi della zoonosi inversa tra esseri umani e roditori

«Il fenomeno della zoonosi inversa, da uomo ad animale, è un fenomeno che ormai registriamo da oltre un anno. Il primo caso che ha avuto risalto sui media è stato quello degli allevamenti di visoni in Danimarca. Pochi mesi fa in Nord America si è scoperto che in una specie di cervidi (Odocoileus virginianus) gli individui sono positivi all'80%!», specifica Gerdol e anche su Kodami recentemente vi avevamo descritto i casi di altre specie che avevano contratto il virus.

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«SARS-CoV-2 è un virus "generalista", in grado di infettare sia esseri umani che altri mammiferi quando acquisisce le giuste mutazioni che gli permettono di legarsi ai recettori ACE2 delle cellule delle diverse specie. Nei nuovi ospiti le differenti pressioni selettive a cui viene sottoposto possono poi portare ad ulteriori "miglioramenti virali". Ma non tutti i mammiferi si infettano con le stesse probabilità – continua il ricercatore – Ad esempio era stato osservato che le prime versioni del virus non riuscivano efficacemente ad attaccare i roditori. Invece Omicron presenta alcune mutazioni (come la N501Y) che non lo avvantaggiano contro di noi, ma gli permettono di infettare topi, ratti e criceti, animali tra l'altro molto studiati in medicina».

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È proprio su queste sequenze di DNA (45 tratti tratti analizzati) che si è concentrata la ricerca del team asiatico studiata da Marco Gerdol in peer review. Secondo gli autori, il pattern di mutazioni sarebbe abbastanza coerente con un'evoluzione in un ospite roditore ma non si è in grado di risalire precisamente alla specie.

«Un'ulteriore indizio a favore di questa terza ipotesi deriva dalla variabilità espressa da Omicron: ebbene, esistono delle "varianti della variante" (l'infettivologia è una scienza complessa…) solo leggermente diverse tra loro, che potrebbero essere nate in momenti diversi dai continui scambi di virus tra l'uomo e la specie "serbatoio" di roditori».

I rischi per le popolazioni animali

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Un'ultima domanda sorge spontanea: che rischi corrono le popolazioni di animali selvatiche e domestiche? «Non si sa molto sull'argomento, ma dipende dalle specie. Ogni animale risponde in maniera diversa al virus, in base ad alcune caratteristiche citologiche come la distribuzione dei recettori nei vari tessuti e le concentrazioni delle proteasi che attivano la spike. In alcune specie il virus sembra non avere praticamente nessun effetto importante, mentre in altre è estremamente pericoloso. Nei visoni danesi la mortalità era altissima, al 10%, mentre nei cervi quasi nulla.

I cani ed i gatti possono essere soggetti all'infezione, ma sono eventi abbastanza sporadici e soprattutto pare che non ci sia una capacità di trasmissione tra animale e animale, tutto si ferma lì. «Un po' come la MERS, altro coronavirus che in passato ha preoccupato gli esperti, e la trasmissione da cammelli a uomo», conclude Marco Gerdol.

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