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Per non dimenticare Simona Cavallaro: ritorno a Satriano a due anni dall’anniversario della morte

Cosa è successo ai cani di Satriano due anni dopo? Siamo tornati in Calabria nei luoghi abitati da Simona Cavallaro per raccontare chi era, e cosa è stato fatto dalle autorità territoriali per impedire che quello che le è successo si ripeta ancora condannando al dolore una famiglia, e all'ergastolo degli animali che non scontano la superficialità delle istituzioni.

26 Agosto 2023
9:59
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«Non odio nessuno. Provare odio significa farsi del male male da soli ed essere infelici. Ma ho qualcosa da rimproverare a molti: la superficialità. Perché in questa situazione siamo tutti vittime». Sono le parole di Alfio, il padre di Simona Cavallaro, la ventenne uccisa da un gruppo di cani da pastore nella Pineta di Satriano, in provincia di Catanzaro.

Era il 26 agosto 2021 quando Simona insieme a un coetaneo si è recata alla Pineta di Monte Fiorino per effettuare un breve sopralluogo in vista di un pic-nic da organizzare con tutto il gruppo di amici per la domenica successiva. La gita però non ha mai avuto luogo: la diciannovenne è morta in quella pineta a causa delle ferite inferte da un gruppo composto da 13 individui.

A distanza di due anni da quel tragico episodio siamo andati a Soverato, la sua città natale, per ascoltare suo padre e per seguire l’epilogo del processo che ha come imputato Pietro Rossomanno, il pastore a cui sono intestati i cani.

La storia di Simona Cavallaro è prima di tutto il dramma privato di una famiglia ma è allo stesso tempo la fotografia del fallimento delle istituzioni. «Nella superficialità si perde una figlia – confida Alfio Cavallaro a Kodami – Non penso che il pastore volesse causare la morte di un essere innocente, così come non lo volevano il Sindaco di Satriano, le Forze dell'Ordine, le Asl e i Vigili urbani. Nessuno voleva la morte di Simona. Ma la superficialità porta a queste tragedie. Se la gente si rendesse conto di quello che causa, penso che ci penserebbe due volte prima di essere superficiale».

Nella tragica vicenda di Simona Cavallaro ad oggi c’è un colpevole riconosciuto dalla legge: il pastore Rossomanno. E poi ci sono loro: i cani di Satriano, dimenticati nella struttura dove sono stati rinchiusi dal giorno dopo la morte della giovane e che stanno scontando il carcere a vita, condannati dalla giustizia degli esseri umani, senza però essere in grado di comprendere la loro colpa.

Vi avevamo parlato di loro nella nostra prima video inchiesta dedicata alla vicenda di Satriano insieme alla direttrice di Kodami Diana Letizia e all’istruttore cinofilo Luca Spennacchio, nella quale avevamo ricostruito le dinamiche della tragedia e spiegato da un punto di vista etologico perchè dei cani possono arrivare a comportarsi in questo modo e, anche, come noi umani dovremmo comportarci in presenza di cani da pastore.

Nel nostro nuovo viaggio, compiuto questa volta nei luoghi abitati da Simona, siamo tornati a trovare anche quegli esseri viventi che le hanno tolto la vita per capire cosa è cambiato per loro in questi due anni e cosa accadrà ora che si è concluso il processo di primo grado. Abbiamo osservato da vicino il territorio che abbraccia due province calabresi: Catanzaro e Crotone per capire se la morte di una ragazza che voleva solo fare un pic-nic ha cambiato qualcosa nella gestione degli animali vaganti da parte delle amministrazioni territoriali.

La prima tappa di questo percorso è stato il "Parco Simona Cavallaro" costruito in sua memoria dal padre a beneficio di tutta la comunità di Soverato. Qui abbiamo scoperto chi era Simona e quali sono stati gli effetti della sua scomparsa nelle vite di chi l'ha amata e siamo andati anche oltre, fino alle stanze della Regione Calabria. Il nostro è stato un viaggio compiuto allo scopo di riannodare i tanti fili che compongono questo intreccio e ci siamo lasciati guidare dalle parole di Alfio Cavallaro, chiare e forti nonostante il dolore, nella richiesta di una giustizia che non vuole punizioni ma assunzione di responsabilità.

Cosa ci lascia Simona Cavallaro

Abbiamo incontrato il papà di Simona nel piccolo parco realizzato un anno dopo la morte della figlia. Ci sono vialetti di ciottoli bianchi, un'area giochi per bambini e un gran numero di piante diverse, tutte segnalate da un apposito cartello con il nome botanico. C'è anche un laghetto artificiale sormontato da un ponte, e poco distante la foto di Simona, protetta da una statua della Madonna di quelle che si vedono solitamente nelle chiese vicino agli altari votivi.

«L'idea del Parco è nata quasi subito dopo che è venuta a mancare – spiega Alfio – Volevo realizzare qualcosa che la ricordasse e nello stesso tempo qualcosa che rimanesse alla città. Verso Soverato ho un grosso debito, sia nei confronti dell'amministrazione che dei cittadini. Pertanto mi è sembrato giusto regalare qualcosa destinato soprattutto ai bambini. Io Simona mia me la ricordo sempre piccola».

Il Parco è nato come un tributo all'amore che la giovane provava per la natura, e una consolazione per il padre che camminando lungo i suoi sentieri può rivivere i momenti più significativi vissuti con i due figli, Simona e il suo gemello Pietro: «Mi ricordo quando li portavo al Parco della Biodiversità di Catanzaro, ed erano sempre delle giornate bellissime, felici. Oggi per me è una gran bella soddisfazione prendersi cura di qualcosa che posso toccare – dice mentre mostra le mani annerite dal contatto continuo con il terreno – Quando faccio questo,  il ricordo va sempre a Simona. In più, c'è  la gioia di vedere altri bambini che giocano».

L'amore di Simona per gli animali è iniziato in tenera età, durante le gite di famiglia in quello che oggi è il Parco della Biodiversità Mediterranea di Catanzaro. La struttura è stata realizzata nei primi anni Duemila, per volontà della Provincia, con l'obiettivo di sottrarre al degrado una vasta area precedentemente lasciata al degrado e all'incuria.

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L’area dove sorge il Parco prima della riqualificazione (Fonte: Parco Biodiversità Catanzaro)

Oggi il Parco della Biodiversità ospita anche un Cras, un Centro che si occupa del recupero della fauna selvatica, e sono proprio gli animali ospiti del centro ad aver attirato l'attenzione di Simona. «Mi ricordo che restava incantata quando andava dove c'erano gli animali. C'erano pappagalli, qualche airone, un cigno, un paio di aquile e poi c'erano pure dei coniglietti. I miei figli sono cresciuti lì dentro, apprezzando la natura, il verde, e pure il regno animale».

Il ricordo di quei momenti ha spinto Alfio a realizzare un luogo dove poter richiamare alla mente i giorni felici trascorsi insieme. È un fiume in piena mentre racconta, potrebbe andare avanti per ore passeggiando nel Parco e ripercorrendo con la memoria un percorso fatto molti anni prima con Simona in quello, molto più grande, di Catanzaro. È irremovibile solo su un punto: non vuole parlare delle dinamiche che hanno condotto sua figlia alla morte: «Voi le sapete e a me non mi va di raccontarle», dice schiettamente.

Il suo distacco è così profondo da aver scelto di non costituirsi parte civile durante il processo, al contrario di quanto che hanno fatto la madre e il fratello di Simona. «Non ho voluto assolutamente avere a che fare con processi, né con cause, né con addebiti e neanche con risarcimenti – spiega Alfio – Io non ho bisogno di un risarcimento per Simona, perché non me la riporterà in vita. Non so neanche cosa succede in tribunale. Non ho un avvocato che mi chiama e mi racconta gli sviluppi. So quello che riportano i giornali o la televisione, ma cerco di evitare pure quello, perché ogni notizia mi riporta alla mente brutti pensieri».

Quello che desidera è invece ricordare Simona per ciò che era in vita, e non perché vittima di una morte atroce. Parlando di quel 26 agosto in cui tutto è cambiato dice solo poche parole: «Simona non aveva paura di niente, neanche dei cani».

Secondo la ricostruzione riferita a Kodami dalle Forze dell'ordine che hanno seguito l'indagine, affidata poi alla Procura, Simona Cavallaro al sopraggiungere del gregge nella Pineta si è rifugiata in una piccola chiesetta in legno non lontana dall'area pic-nic. Poco dopo, però, è uscita, forse proprio per avvicinarsi agli ovini o ai cani bianchi. Insieme a lei c'era un amico che però ha scelto di restare all'interno del manufatto in legno, intimorito da tutti quegli animali. Non c'era tensione all'inizio, ma con il sopraggiungere di alcuni membri del branco qualcosa è cambiato repentinamente.

Solo nel tardo pomeriggio Pietro Rossomanno ha ritrovato i suoi animali scoprendo quello che era successo. L'uomo ha partecipato alle attività di ricerca e cattura insieme ai Carabinieri e agli operatori dell'Asl, i quali hanno provveduto a intestargli i 12 animali privi di microchip trovati nelle campagne di Satriano, perché ritenuti di sua proprietà.

Per la legge italiana infatti i cani sono res, e come tali possono essere comprati e venduti. Ma si tratta comunque di "oggetti particolari" perché per la legge non possono non avere un "proprietario": i cani appartengano a chi li alleva, a chi li acquista, a chi li adotta, e se si tratta di randagi sono del Sindaco del Comune in cui vengono accapalappiati, sia nel caso in cui vengano successivamente reimmessi sul territorio o che finiscano in canile.

A fare eccezione, a Satriano come nel resto d'Italia, sono i cani padronali impiegati nel mondo agricolo. In molti casi si tratta di cani da pastore o da guardiania lasciati nelle campagne dove nascono, lavorano e si riproducono senza controllo. Questi non vengono mai intestati né ai chi li impiega né ai Primi cittadini. Si tratta di veri e propri fantasmi che pur svolgendo un ruolo essenziale, soprattutto per i piccoli e medi produttori del comparto agroalimentare italiano, in molti casi si trovano privati di ogni diritto, alla stregua di veri e propri attrezzi da lavoro. La registrazione in banca dati e il microchip servono proprio per tracciarne l'esistenza e dissuadere così le persone dall'abbandonarli o ucciderli quando non li considerano più utili.

Ma questi strumenti servono anche per tracciare la presenza dei cani sul territorio. A questo scopo, le autorità territoriali sono chiamate a vigilare per rendere chiare situazioni opache, come quella dei cani nella Pineta di Satriano. «Erano incustoditi tutti i giorni – dice Alfio Cavallaro – Lui [Rossomanno n.d.r.] ammette che solo uno o due cani sono suoi, mentre gli altri li disconosce. I suoi cani però negli anni si sono moltiplicati e hanno fatto figli e figlie, e poi nipoti e così via – sottolinea il padre di Simona Cavallaro – Io non me la prendo con il Comune di Satriano, il Sindaco era appena arrivato. Ma ripeto, il problema è la superficialità».

All'indomani della morte della giovane i cani sono stati tutti intestati a nome di Pietro Rossomanno, il quale però attraverso i suoi avvocati ha disconosciuto ogni responsabilità sugli animali che oggi si trovano nel canile Pet Service di Torre Melissa, in provincia di Crotone, mantenuti dal Comune di Satriano.

Il provvedimento, tardivo, di intestazione a nome del pastore ha avuto come effetto principale quello di aprire le porte del carcere a vita per i cani, un "fine pena mai" fatto di cavilli burocratici.

I cani di Satriano oggi

Diverse associazioni, dopo aver visto la prima inchiesta di Kodami dedicata ai fatti di Satriano, hanno fatto richiesta alla Procura di Catanzaro per poter avere in affido i cani allo scopo di iniziare con loro un percorso di rieducazione. Più volte Teresa Marranghello, presidente della Federazione Italiana Appennini (Fia), ha chiesto di accogliere nella sua struttura, e a sue spese, due degli individui più giovani tra i quali c'è un piccolo meticcio di nome Nathan che difficilmente ha potuto prendere parte all'aggressione.

Una richiesta legittima, inoltre, dato che i cani non sono mai stati sotto sequestro: nei loro confronti non è mai stata nemmeno fatta una valutazione comportamentale al fine di accertarne il grado effettivo di pericolosità o sondare le motivazioni che li hanno condotti a un atto tanto estremo quanto raro.

Inizialmente la pm di Catanzaro Irene Crea aveva comunque negato alla Fia il consenso all'affido, ritenendo gli animali «di interesse investigativo». Quando però la fase d'indagine si è conclusa, ed è iniziato il dibattimento vero e proprio, la Procura ha finalmente dato il proprio nullaosta. A tirarsi indietro a quel punto, è stato Massimo Chiaravalloti, il sindaco di Satriano, che solo pochi mesi prima, in concomitanza con il primo anniversario della morte di Simona Cavallaro, aveva annunciato a Kodami il proprio consenso all'adozione degli animali.

Oggi però i cani sono ben lontani dall'iniziare un percorso di rieducazione, in quanto oggetto di una contesa, economica e giudiziaria, che vede contrapposta l'amministrazione comunale di Satriano e Rossomanno.

I cani si trovano infatti nel canile mantenuti dal Comune che però ha annunciato l'intenzione di rivalersi delle spese sul pastore. Ad oggi la cifra spesa per il mantenimento degli animali si aggira intorno ai 17 mila euro: una voce di spesa pesante per le casse di un Comune piccolo come Satriano. Il sindaco Chiaravalloti teme quindi che dando l'assenso all'adozione perderà la possibilità di rivalersi su Rossomanno, ma non solo. Il problema giudiziario, infatti, non è secondario a quello economico.

Il terreno sul quale Rossomanno aveva edificato la propria azienda agricola appartiene al Comune di Satriano, e per questo l'amministrazione si è costituita parte civile al processo per la morte della ventenne di Soverato. Ma il Comune risulta anche destinatario di un esposto dell'avvocato Valentina De Pasquale che in sede civile rappresenta la madre e il fratello di Simona. Raggiunta al Tribunale di Catanzaro, De Pasquale spiega le motivazioni dell'esposto  che coinvolge anche l'Asl locale: «È stato consentito che la tragedia avvenisse. È vero che Rossomanno ha posto in essere una condotta rilevante sotto il profilo penale, ma è stato consentito da chi aveva un obbligo di vigilanza sia sul territorio e sugli animali».

Nel frattempo, i cani restano nel canile Pet Service, seguiti dal veterinario della struttura, Giovanni Rotondo, che nel nostro viaggio ci ha guidati nei due recinti dove vivono attualmente i cani di Satriano. «Quando sono arrivati erano generalmente in buone condizioni di salute – ricorda il veterinario mentre ci accompagna dai cani – Non erano deperiti, e a livello comportamentale c'era qualcuno che aveva fiducia in me. Ricordo uno che aveva un'infezione ai genitali, mentre un altro è morto poco dopo l'ingresso per una peritonite».

All'esame del veterinario, avvenuto subito dopo la cattura, è apparso chiaro che non tutti avevano avuto un ruolo nell'aggressione: «Alcuni avevano tracce di sangue sul muso, mentre altri invece erano puliti. Tutti erano abituati al contatto con l'essere umano e non si tratta di cani inselvatichiti, tuttavia si vede che sono abituati a difendere il proprio territorio. Possiamo avvicinarci, ma fino ad un certo punto».

Quando Rotondo entra nel primo recinto, uno dei maschi con una cicatrice sull'occhio lo osserva immobile. «È come se dicesse: "resta lì"», spiega il veterinario mentre accarezza un altro cane più socievole. «Non credo che siano irrecuperabili – è la valutazione del veterinario che si occupa di loro – chiaramente ci vuole un percorso con personale competente: educatori e veterinari comportamentalisti che sappiano capire i soggetti ed educarli. Ce n'è qualcuno più aggressivo degli altri, ma alcuni sono avvicinabili già ora, per cui credo che sia possibile il recupero».

Anche Alfio Cavallaro, davanti a questa ipotesi non ha opposto un rifiuto sordo: «Io non provo odio verso gli animali. L'animale fa come è stato abituato dall'uomo. Se gli viene dato amore dà amore. Ma se un'animale viene abbandonato a sé dalla mattina alla sera quando piove o fa freddo, o se fa caldo e fuori ci sono 50 gradi allora diventa selvatico». E poi, dopo averci riflettuto ancora qualche istante aggiunge: «Sarei d'accordo per la rieducazione. Non ho niente in contrario. Un cane se adottato da una famiglia che lo ama può dare solo amore. L'abbattimento è per gli animali particolarmente pericolosi, ma altrimenti la riabilitazione sarebbe una cosa giusta. Però non ti so dire altro».

Per questi cani però non sembra esserci possibilità. Rossomanno dal canto suo nega ogni responsabilità sugli animali e quindi anche di poter dare l'assenso all'adozione o alla rieducazione. Un empasse che non sembra terminata neanche con la fine del processo di primo grado che ha confermato il ruolo del pastore nella morte di Simona.

Il processo: pena ridotta da 15 a 3 anni

Pietro Rossomanno è stato condannato a 3 anni di reclusione per l’omicidio colposo di Simona Cavallaro durante il processo che si è concluso il 27 giugno 2023.

La pena chiesta dalla Pm di Catanzaro, Irene Crea, era di 15 anni ma il gip ha convertito il capo d'accusa in omicidio volontario con dolo eventuale in omicidio colposo. Un cambiamento che è valso al pastore un sostanzioso sconto di pena.

Tra i capi d’accusa a suo carico figuravano anche l’introduzione e l’abbandono di animali e l’invasione e occupazione abusiva di terreni. Questo perché secondo la ricostruzione dell'accusa, il pastore aveva lasciato pascolare in sua assenza il gregge di ovini, con il branco di cani al seguito, sul terreno di proprietà del Comune di Satriano. I cani e le pecore non avrebbero mai dovuto trovarsi nell'area pic-nic di un'area aperta al pubblico in assenza, per giunta, del pastore.

Ma non è finita qui. La stessa abitazione con annessa azienda agricola è stata edificata su un terreno demaniale, e per questo a processo con Rossomanno è finita anche la madre settantenne, Maria Procopio, che viveva con lui.

Gli animali erano quindi lasciati a loro stessi sul suolo pubblico, lontano dallo sguardo e dal richiamo del pastore, l’unico che quella domenica di agosto avrebbe potuto evitare la morte della giovane. Nella Pineta di Satriano, per motivi che difficilmente riusciremo a comprendere del tutto, i cani hanno ritenuto che Simona fosse una minaccia, e hanno agito di conseguenza. È il loro lavoro, del resto: proteggere il gregge e tenerlo unito è il motivo per il quale questi cani sono stati selezionati dall’essere umano e per il quale continuano a essere stabilmente al fianco di allevatori e agricoltori. Ciò non significa che i cani da pastore siano pericolosi ma che hanno uno scopo preciso e sta al pastore che si occupa di loro conoscerne la memoria di razza e fornire una guida e un’educazione adeguate. Lo spiega chiaramente Luca Spennacchio, membro del comitato scientifico di Kodami, nella puntata del nostro format "Che razza di storia" dedicata ai Pastori Maremmani Abruzzesi:

Quando questo impegno viene a mancare si causano situazioni esplosive, come quella che ha travolto Simona Cavallaro e la sua famiglia. Rossomanno, infatti, aveva registrato a proprio nome in anagrafe solo uno dei cani che quel giorno di agosto si trovavano a guardia del gregge che pascolava nella pineta: la femmina Bianca. Tutti gli altri erano non microchippati e quindi formalmente invisibili agli occhi delle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sulla loro presenza nelle aree pubbliche di Satriano.

Nonostante la registrazione degli animali all'Anagrafe canina regionale sia un obbligo di legge, Rossomanno non ha mai adempiuto anche quando il numero dei cani cresceva: secondo Alfio Cavallaro erano addirittura 25 i cani di cui si occupava il pastore.

Quando il sistema di controllo della registrazione in banca dati è del microchip viene a mancare però, i cani invisibili delle campagne vanno ad accrescere sensibilmente anche il randagismo, un fenomeno complesso che se ignorato nelle sue dinamiche può portare a conseguenze gravi non per una sola piccola comunità ma per un'intera regione.

La Calabria, le istituzioni e il randagismo

«La situazione in Calabria è drammatica. Le istituzioni comuni e anche le aziende sanitarie affrontano il problema con molta superficialità, approssimazione e a volte con assoluta indifferenza». È l'opinione di Giuseppe Trocino, avvocato e responsabile della sezione Enpa di Crotone.

Durante il nostro viaggio Trocino ci ha aperto le porte del suo studio per raccontarci la realtà dei canili e delle strade della sua regione. La Calabria, insieme alla Sicilia, non ha fornito le cifre relative agli ingressi nei suoi canili. «Le istituzioni si disinteressano del problema, non lo gestiscono e ne subiscono poi le conseguenze, cercando di affrontarlo con provvedimenti emergenziali alla giornata – fa presente l'avvocato – Di fatto disattendendo la normativa nazionale e tutte le leggi regionali che si sono succedute negli ultimi 30 anni.

Gli effetti sono beni visibili nella dorsale immaginaria che collega Catanzaro e Crotone. «Centinaia di migliaia di cani detenuti all'interno di strutture lager – continua l'avvocato – e Comuni costretti a pagare centinaia di migliaia di euro a strutture private senza nessuna prospettiva di risoluzione».

Per questo l'Enpa Crotone di Trocino, insieme ad altre associazioni del territorio, ha costituito il gruppo Onda Calabra. La coalizione di associazioni interloquisce con la Regione che in questi mesi sta lavorando a una nuova legge regionale che però ai volontari non appare risolutiva dei problemi esistenti. «Questa proposta – aggiunge Trocino – per come è stata presentata rischia di rimanere ancora una volta lettera morta e di non poter trovare attuazione, mettendo ancor più in difficoltà i Sindaci i quali avranno tantissime diciamo tantissimi doveri ma non avranno le risorse per poter ottemperare a quelli che sono i precetti normativi».

Intanto, a farne le spese sono i volontari che con passione lavorano per dare agli animali una vita il più serena possibile, anche se confinati all'interno di un box. Lo sa bene Clara Solla, volontaria della locale sezione dell'Oipa in prima file per la difesa dei cani padronali impiegati nelle campagne che ci ha fatto da guida nella provincia di Catanzaro. Oppure Rossana Longo, responsabile del rifugio Fata di Lamezia Terme, un'oasi per tutti i cani recuperati sul territorio.

È proprio sulle spalle dei volontari che ricade la cura degli animali liberi, che vogliono e possono vivere liberi, e il recupero di quelli che invece in strada non sopravviverebbero. Ma appaltare a volontari quello che invece dovrebbero fare le istituzioni è un espediente raffazonato, costoso per le casse dell'amministrazione pubblica e pericoloso per i cittadini che credono di avere tutele, quando invece non è così.

Infine, ancora una volta vogliamo ribadirlo: è ingiusto per i 12 cani cani di Satriano attualmente dietro le sbarre senza possibilità di uscirne, di avere un'occasione di riscatto. Vittime ultime del sistema malato che ha ucciso Simona Cavallaro.

Giornalista per formazione e attivista per indole. Lavoro da sempre nella comunicazione digitale con incursioni nel mondo della carta stampata, dove mi sono occupata regolarmente di salute ambientale e innovazione. Leggo molto, possibilmente all’aria aperta, e appena posso mi cimento in percorsi di trekking nella natura. Nella filosofia di Kodami ho ritrovato i miei valori e un approccio consapevole ma agile ai problemi del mondo.
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