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13 Aprile 2021
17:49

“Il mio amico in fondo al mare” vince ai Bafta: il labile confine tra la meraviglia del mondo animale e le ossessioni umane

"Il mio amico in fondo al mare" è il documentario vincitore dei Bafta Award 2021 ed è anche candidato ai prossimi Oscar. Racconta la storia di Craig Foster, documentarista che ritrova se stesso nella relazione con un polpo che vive sui fondali di una foresta di Kelp in Sudafrica. Immagini spettacolari e focus su un animale straordinario ma anche una narrazione a tratti troppo morbosa e tanto antropocentrica nonostante i registi dicano di puntare proprio sul messaggio opposto.

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"Il mio amico in fondo al mare" è una femmina di polpo. Non vivrà oltre i due anni di vita a livello biologico, qualora ci arrivi superando i pericoli dei predatori e di un'esistenza in natura. "My Octopus Teacher" è il documentario di Pippa Ehrlich e James Reed, prodotto da Netflix, che ha vinto i Bafta Awards 2021 ed è anche candidato ai prossimi Oscar. Racconta della relazione che si instaura tra un fotografo e video reporter naturalista, Craig Foster, e un polpo che vive sui fondali della costa di False Bay, in Sud Africa, immerso in una foresta di Kelp.

Giorno dopo giorno, per più di un anno e con una post produzione durata un decennio, il film descrive da una parte l'incredibile e affascinante vita di un animale di cui ancora poco si sa ma, anche, l'ossessione di un uomo che per superare un periodo di depressione trova in quella forma di vita una ragione per rivedere la sua stessa esistenza. E i sentimenti di Foster fanno poi da padrone più di tutto il resto: diventano irreversibilmente invasivi nella narrazione e finanche morbosi. Ma è proprio questa è la chiave di volta che fa sostenere a chi guarda il ritmo di un documentario che, altrimenti, sarebbe rimasto un "cult" solo per appassionati. "My Octopus Teacher" penetra nelle emozioni umane e lo fa mostrando un animale che non fa parte del nostro repertorio delle relazioni con altre specie, coinvolgendo chi guarda sul filo ipnotico costruito tanto dalle riprese quanto dal tono della voce narrante.

Perché questo documentario è importante per sollevare l'opinione pubblica sul rispetto degli altri esseri viventi

La potenza e l'efficacia che hanno le immagini che raccontano la vita del polpo sono estremamente importanti per sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale sui temi del rispetto e della tutela nei confronti degli altri abitanti del Pianeta. E' un caso più unico che raro che un film dedicato a un animale così lontano dagli esseri umani, che solitamente al massimo si incontra su un piatto, è diventato prima un caso di successo su Netflix, ha ora ottenuto un premio così ambito come quello della British Academy of Film and Television Arts ed è ora anche in odore di Oscar.

Le riprese e il montaggio sono strepitosi, gli "insight" che provano a spiegare la vita del cefalopode danno una visione sorprendente di un essere la cui intelligenza emerge nel modo giusto, almeno fin quando la narrazione si tiene sull'aspetto dell'osservazione e non del paragone con le nostre modalità cognitive ed emotive. Il documentario, dal punto di vista naturalistico, è perfetto fin quando rimane in equilibrio nel non giudizio, nella non immedesimazione e consentendo allo spettatore di osservare i comportamenti del polpo da una visuale privilegiata, mostrando quello che fa e come vive in una dimensione a noi completamente sconosciuta.

Dopo la realizzazione di "My Octopus Teacher" Craig ha fondato Sea Change Project, una comunità di scienziati, narratori, giornalisti e registi che si dedicano alla salvaguardia degli Oceani. Come scritto sulla home page del sito dedicato al progetto, il messaggio che il fotografo vuole che rimanga stampato nella mente di chi vede il suo documentario e intende seguire le sue attività future è: "Remember you are wild" che, tradotto in italiano al meglio, potrebbe suonare così: "Ricordati che sei parte della natura".

Perché però quando parliamo di animali siamo incapaci di non farne sempre una questione così personale?

“Molte persone dicono che un polpo è come un alieno. Ma la cosa strana è che, man mano che ti avvicini a loro, ti rendi conto che sei molto simile a lui, in molti modi. Stai entrando in questo mondo completamente diverso, una sensazione così incredibile, e ti senti come se fossi a un passo da qualcosa di straordinario”.

Questa è la frase di Craig Foster che tutti i media riprendono per testimoniare la sua esperienza. Ma il punto, ancora una volta, sebbene si provi in tutti i modi a voler far passare il messaggio che "Il mio amico in fondo al mare" non è antropocentrico è proprio l'opposto: ci affezioniamo al polpo perché è visto da Foster come un amico, il suo unico amico. Seguendo i suoi pensieri umani, ci immedesimiamo scena dopo scena pensando all'animale come a uno di noi. Il documentarista porta con sé sotto le onde, nell'acqua fredda in cui si immerge, tutti i problemi della sua esistenza e "usa" quell'animale per trovare una via d'uscita da una vita che gli sta stretta.

Nel Manifesto di Kodami c'è un punto che crediamo sia fondamentale quando si approccia alla vita di specie diverse da noi: "Riconosciamo che gli esseri umani sono necessariamente antropocentrici e che la vita di un animale non potrà mai essere adeguatamente narrata, sebbene faremo del nostro meglio per informare secondo i nostri valori da un punto di vista etologico e giornalistico". Anche noi cadiamo e cadremo in errore, sia chiaro: umanizzare gli animali è una questione che potremmo definire culturale per gli homo sapiens e non c'è da farne una tragedia ma prenderne atto. Siamo fatti così e cambiare la nostra natura sarebbe come volerla cambiare a altre specie per cui ci battiamo perché siano, appunto, considerate altro da noi e viste nella loro soggettività.

Ma il tentativo, almeno, per riconoscere davvero agli altri esseri viventi una loro individualità e identità dovrebbe essere quello di raccontarli usando sì il nostro linguaggio, ovviamente, ma senza invadere completamente la loro sfera emozionale e relazionale. Nel documentario di Craig questo non accade e l'aspetto della morbosità, anche nella famosa e tanto celebrata scena del contatto con il polpo, è ciò che ci lascia più perplessi. Non sappiamo perché il cefalopode decida di avvicinarsi così tanto all'uomo e va benissimo ipotizzare e teorizzare sul fatto che il suo comportamento davvero sia indotto da curiosità e desiderio personale di entrare in contatto con l'umano che lo stalkera dalla mattina alla sera. Ma quando si vede quel momento, che rappresenta l'apice della relazione tra i due dal punto di vista del narratore, il parlato di sottofondo è così tanto incentrato sulle sensazioni del fotografo che le emozioni descritte riguardano ancora una volta solo noi e quell'atavica necessità di porci al centro del mondo anche in un universo sottomarino che, decisamente e per fortuna, non ci appartiene.

Il polpo insegna sicuramente tante cose al protagonista umano di questa vicenda e anche a chi guarda la loro storia: ci fa comprendere della caducità di tutte le esistenze, della brevità del viaggio che compiamo su questo Pianeta simboleggiato dalla durata della vita dell'animale e contiene un nemmeno subliminale messaggio rivolto a tutti noi: smettiamola di arrovellarci ossessivamente sulle nostre difficoltà quando altre specie "faticano" molto di più per conquistare ogni giorno il diritto all'esistenza. Ma ecco, anche in questo ultimo passaggio, non stiamo di nuovo sbagliando il metro di paragone?

E allora se vogliamo ritornare alla umanizzazione degli animali, dovremmo accettare paradossalmente il dato di fatto che solo il polpo potrebbe dirci se dal suo punto di vista la sua quotidianità è davvero così complessa come sembra a noi. O, magari, proprio quel cefalopode in fondo alla foresta di Kelp potrebbe rispondere all'opposto che è molto meglio essere preda e cacciatore, allo stesso tempo, che passare il tempo a riflettere sulle miserie umane. Chissà, forse è solo ora di comprendere che la vera discesa dovrebbe essere prima nell'abisso delle nostre inconsapevolezze piuttosto che a fare i Baudelaire della Natura immergendosi senza muta al gelo pur di farsi sfiorare il petto da un polpo e… goderne come un riccio.

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Diana Letizia
Direttrice editoriale
Giornalista professionista e scrittrice. Laureata in Giurisprudenza, specializzata in Etologia canina al dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli e riabilitatrice e istruttrice cinofila con approccio Cognitivo-Zooantropologico (master conseguito al dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma). Sono nata a Napoli nel 1974 e ho incontrato Frisk nel 2015. Grazie a lui, un meticcio siciliano, cresciuto a Genova e napoletano d’adozione ho iniziato a guardare il mondo anche attraverso l’osservazione delle altre specie. Kodami è il luogo in cui ho trovato il mio ecosistema: giornalismo e etologia nel segno di un’informazione ad alta qualità di contenuti.
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