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Secondo un recente articolo uscito sulla prestigiosa rivista Science, gli zoo e gli orti botanici costituiscono uno degli strumenti principali che oggi disponiamo per salvaguardare le specie a rischio d'estinzione. Addirittura l'unico, in taluni casi specifici: secondo lo studio solo grazie a queste tipologie di strutture alcune delle specie inserite all'interno della lista "estinti in natura" della IUCN sono ancora presenti sulla Terra.
Lo studio è stato coordinato da alcuni biologi della Zoological Society London (ZSL) – uno dei principali enti che studiano la fauna selvatica a livello globale – e dall’Università degli Studi Roma Tre, che è stata coinvolta nel progetto con l'impegno del professore Thomas Abeli, docente di Botanica e Biologia della Conservazione.
I risultati stanno generando dibattito e polemica all'interno di alcuni ambienti accademici. Lo studio ha preso in considerazione 95 specie di animali e piante diverse, estinti in natura. Gli scienziati hanno verificato quanto efficaci siano stati negli ultimi settant'anni i progetti patrocinati dai più importanti orti e zoo del mondo e quanto si siano dimostrati utili nel mantenere viva la speranza di conservare e reintrodurre le specie in natura.
«Fare in modo che queste specie si allontanino progressivamente dall'estinzione richiede un raddoppiamento degli sforzi e una realizzazione collettiva del problema», dichiarano gli scienziati, all'inizio della ricerca. Ed è il loro stesso studio a dimostrare quanto questo dissidio fra le diverse esigenze (mantenere vitali le popolazioni e la necessità di ottenere un maggior numero di fondi) possa portare direttamente alla perdita o al mantenimento delle diverse forme di vita oggi a rischio.
Donal Smith, l'autore senior dello studio ha in particolare sottolineato l'importanza del lavoro dal suo punto di vista «encomiabile» degli orti e degli zoo che spesso rappresentano "l'ultima dimora" per specie sempre meno in salute. Una vera e propria "arca", secondo il ricercatore, nel diluvio di un antropocene che sta portando all'estinzione la maggioranza delle specie.
Smith ha dichiarato: «Senza queste organizzazioni dedicate alla conservazione avremmo già perso animali esotici come l’orice dalle corna di scimitarra o diverse lumache arboree polinesiane, per non parlare poi dell’albero toromiro dell’Isola di Pasqua, fra i più rari in natura. È solo dunque grazie al lavoro instancabile delle persone che lavorano all'interno degli zoo o degli orti botanici se oggi abbiamo ancora l'opportunità di ristabilire delle popolazioni in natura. Perciò è imperativo che zoo, acquari, orti botanici e banche dei semi ricevano il sostegno finanziario e intergovernativo per riuscire a svolgere la loro impresa».
Ovviamente, come ben riconoscono gli stessi scienziati, la situazione non è così perfetta dovunque. Nel mondo esistono infatti ancora diverse istituzioni e zoo dove l'animale viene visto come un oggetto da esporre per monetizzare. E anche in Italia ci sono casi borderline in cui gli animalisti puntualmente criticano le scelte dei direttori amministrativi, colpevoli secondo loro di maltrattare gli animali.
John G. Ewen, un altro autore dello studio ha così spiegato un altro passaggio importante: «Anche se oggi abbiamo la capacità di proteggere e salvare un gran numero di specie, è vero che il successo nel loro recupero è relativamente più rapido solo quando i vari progetti di conservazione ricevono più fondi e quando si riesce ad ottenere più individui in allevamento. Dunque se vogliamo osservare un'inversione di tendenza nel trend di ingressi all'interno degli zoo, dobbiamo spingere affinché queste specie possano tornare nel proprio ambiente».

Un altro punto che è stato evidenziato all'interno dell'articolo è che secondo i biologi conservazionisti esisterebbe un divario tra specie animali e vegetali, visto che la maggioranza dei progetti che portano alla reintroduzione in natura hanno come soggetto una specie animale. Come dimostrazione di questo fatto, gli autori prendono come esempio alcuni progetti di reintroduzione all'interno delle popolazioni selvatiche. Su 12, solo due sono vegetali, a prova del fatto che attualmente le piante non godono di molto interesse da parte degli stessi conservazionisti.
Della moltitudine di piante a rischio, gli autori della ZSL hanno d'altronde calcolato che solo il 23% delle specie estinte in natura ha ricevuto almeno un tentativo di reintroduzione. Il 67% delle specie animali a rischio invece avrebbe ricevuto l'attenzione di progetti atti alla conservazione delle popolazioni selvatiche.
Questo sarebbe avvenuto anche per via della maggiore difficoltà nello studiare e nel favorire progetti di conservazione riguardanti le piante ma i biologi sono sicuri che se la nostra specie vuole migliorare le condizioni ambientali da qui al prossimo futuro necessitiamo di incrementare i nostri sforzi per comprendere e proteggere le piante.
Secondo il professor Thomas Abeli, infine, non c'è altro da fare se non impegnarsi molto di più nel proteggere anche quelle specie non più presenti in natura. «Questo studio dimostra come strutture un tempo criticate, come gli zoo e in alcuni casi anche gli orti botanici, non siano più solamente delle esposizioni per soddisfare la curiosità verso animali e vegetali esotici, ma siano oggi divenuti strumenti indispensabili per la conservazione della biodiversità, senza i quali il mondo avrebbe già perso quasi 100 specie in più, oltre a quelle che già non ce l’hanno fatta».