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24 Giugno 2021
12:36

Meglio un cane amico che… un amico cane

Nel barese sono tanti i cani in libertà: un lettore di Kodami, amante degli animali, da tempo li osserva e convive con loro. Così Vito Santamato ha deciso di scrivere dei racconti che raccontano le storie degli individui che ha incontrato e di inviarle a noi, per condividere la sua esperienza e quella dei randagi che ha incontrato distinguendo sempre le varie tipologie, dal cane veramente libero a quello che è stato abbandonato.

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Racconto di Vito Santalmato
Lettore di Kodami, amante degli animali e attento osservatore dei cani liberi nel barese

Riceviamo e pubblichiamo questo racconto scritto da un nostro lettore

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Meglio un cane amico che un amico cane, pensava rabbuiato; poi iniziò a parlarmi: “Scruta le profondità marine in paragone all’abissale ignoranza di certa gente… mi comprendi?”. No, non capivo cosa volesse esprimermi con quelle scarne parole, pronunciate in modo cadenzato per enfatizzare i contenuti; intuendo però che ne celassero un forte impatto mediatico com’era consuetudine verbale del mio interlocutore, pensai che esse meritassero rispetto a prescindere.

Dunque annuii in cenno di assenso e mi disposi mentalmente al prosieguo di quel monologo, lasciandogli intendere che pendevo dalle sue labbra; lui però interruppe brusco il volo pindarico dei miei pensieri: “Come potresti, non sei abituato a certe scene!”. Pur lasciando intravedere un tono di rimprovero, subito parve acquietarsi, tanto da precisare: “Non te ne faccio colpa, sono furibondo solo verso una sottospecie di persone”.

Nell’assolata ma ventilata giornata di agosto, quella rabbiosa esternazione me ne presagì l’oggetto; dedussi inoltre che l’interiorizzazione del suo pensiero, tenuta forzatamente sotto controllo, gli stesse esplodendo qual sibilo di pentola a pressione che sfiata di botto l’aria facendone poi trasparire solo un’innocua nuvola di vapore. Non mi sbagliavo poiché presto il suo aspetto si attestò presto in dignitosa fierezza: se gli fosse stato possibile, avrebbe volentieri subìto in prima persona ogni doloroso effetto di quanto si accingeva a dirmi.

Iniziò ad argomentare su chi fossero metaforicamente gli animali e le bestie: se ne era reso conto da tempo, non appena il lume della ragione gli aveva fornito eloquenti risposte. Orbene, riteneva lampante che mentre la categoria animale appartenesse alle anime poste dal Creatore sulla terra onde abbellirne il piano divino, quella delle bestie fosse nient’altro che la sottospecie di individui prima citata; era evidente che in lui si fronteggiavano simbolicamente vittime e carnefici, in una guerra senza vincitori ma di soli vinti. Lo stallo (termine solo formalmente più elegante di abbandono, uguale però nella sostanza) in cui vivevano quei cani di strada, gli aveva inoltre ispirato la sarcastica constatazione che nell’homo sapiens il codice genetico fosse semplice leggenda metropolitana, tale da enfatizzare l’aforisma che da tempo immemorabile così recita: ‘Meglio un cane amico, che un amico cane!’.

“Non capisco cosa c’entri questo aspetto coi randagi di strada, puoi spiegarti?”, dissi allora per allontanare emotivamente i miei sensi di colpa, nell’impatto con la cruda realtà. “Magari” – precisai in modo semiserio per stemperare i toni – “quei randagi percepiscono che fa la differenza nascere sotto una buona stella grazie ad un pedigree, all’avere un padrone benestante o nell’essere stati svezzati dai propri genitori di … pelo”.

Intanto fra me e me giustificavo il modus vivendi della squinternata ed allegrotta banda canina rigorosamente meticcia, che da tempo circolava nella zona campestre del mio quartiere, blasonata da un unico ma inestimabile pregio: la vita randagia e di strada quale dignitoso simbolo di sopravvivenza fra mille difficoltà. “A cosa pensi?” chiese, accentuando il complemento di termine e interrompendomi il decollo di pensieri pindarici: dal canto mio, in quei frangenti riflettevo che i randagi durante il giorno vivessero nel verde tappeto dei campi circostanti, mentre di notte dormissero avvolti da una cupola di stelle, magari fantasticando di risvegliarsi coccolati da un compiacente padrone. Gli domandai perciò tutto d’un fiato: “Secondo te quei cani sognano?”.

La sua disarmante risata mi spiazzò, perciò notando il mio disappunto disse: “Osservandoli attentamente quando dormono noteresti di tanto in tanto lo strabuzzare gli occhi e il loro furfuglìo; li vedresti anche muovere le zampe in modo disarticolato, quasi a voler fare qualcosa cui sono impediti dal torpore. Tutto ciò basta e avanza per capire che anch’essi possiedono attività onirica, al pari degli umani; ne convieni?”. Stavolta fu la mia voce a prorompere: ”Come sempre sull’argomento, hai ragione; però adesso ti dirò qualcosa che non ammetterà repliche, neanche dall’esperto conoscitore canino quale sei: spero che tutti i cani randagi e abbandonati possano vivere l’intera esistenza serenamente, morendo non di stenti o per l’incuria umana ma perché sazi di giorni, magari mentre sognano sotto un manto trapunto di stelle… chiedo troppo, vero?”.

Inizialmente il pessimismo non gli prevalse, tanto da proferirmi in tono pacato: “No, anzi!”. Pensai dunque che avesse compreso il mio pensiero sul da farsi: rifugi e cure veterinarie, ma specie tanta dedizione. Poi però precisò: “Ciò che tu speri viene facilmente eluso dall’acquisto di costosi quanto superflui status-simbol, anziché fare da sprone nella cura ai letali effetti della leishmaniosi!”.

Toccato dalla simbolica stilettata mi annoverai fra i tanti moralisti di comodo, interrogandomi al plurale maiestatis onde attenuare i sensi di colpa; mi chiesi perciò cosa si facesse di particolare per quegli animali oltre al gesto pietistico di porre, forse vicino ad un cassonetto, il sacchetto con avanzi di cibo.

“Allora?… sei dentro o fuori?“, tuonò. Nella concitazione del momento mi sembrò vestire i panni del Don Chisciotte di Cervantès, pronto non solo a spezzare la lancia ma a scagliare l’intera armatura contro i mulini a vento dell’indifferenza umana. Sibilò: “Sono chiamati ‘bastardi’, invece hanno animo nobile e chiedono solo un po' d’affetto… ma via, serve forse la consulenza psicologica per capire che si isolano perché privi di ogni attenzione?”. Dovendone ora trarre debite conclusioni egli cercò di modulare emotivamente in sé un’utopia, ovvero che molti più individui si potessero responsabilizzare in tal senso. Tuttavia da esperto conoscitore anche della razza umana fu nuovamente prevalso dal pessimismo e sospirò, enfatizzando l’aforisma iniziale: “Dammi retta… meglio un cane amico, che un amico cane!”. Si consolò al pensiero delle attenzioni rivolte all’amico a quattro zampe, da impagabili persone: ovunque fossero, erano queste per lui -a buon diritto- “uomini” e “donne” degne di tali appellativi.

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