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In che modo lo stile di vita del gatto influenza le sue risposte comportamentali? È questa la domanda che si sono posti i ricercatori delle Università di Napoli Federico II e Università della Campania Luigi Vanvitelli per la quale hanno condotto uno studio di un anno su un campione di 60 gatti domestici. Il professor Biagio D’Aniello, docente di zoologia dell’Università di Napoli Federico II e coautore dello studio, spiega a Kodami i dettagli degli esperimenti svolti: «I gatti sono più complessi da studiare dei cani e sono difficilmente testabili al di fuori del loro ambiente abituale, quindi abbiamo contattato diverse persone tramite avvisi, passaparola e i canali social e i ricercatori si sono recati presso le loro abitazioni per verificare innanzitutto che i locali fossero idonei».
Una volta selezionato il campione, il team di ricerca ha messo in atto un esperimento per valutare il comportamento dei gatti dinanzi ad un compito facile. Sono stati testati gatti con due stili di vita diversi per valutare eventuali differenze comportamentali: i cosiddetti gatti "indoor", che cioè non lasciano mai l'abitazione, e i "roaming", liberi di girovagare.
«Ogni gatto doveva risolvere un compito su un apparato – sottolinea D’Aniello – fatto da una tavola di legno con quattro viti in cui si incastra un contenitore di plastica con una ricompensa di cibo al di sotto. In una prima fase il coperchio viene solo appoggiato, in modo che il gatto possa spostarlo facilmente con la zampa o col muso». Questa operazione viene ripetuta per tre volte, per far abituare il gatto in vista della fase clou dell’esperimento, quella dell'"impossibile task".

«Nella seconda fase il contenitore di plastica viene bloccato sul coperchio fissato alla tavola e il compito diventa impossibile per il gatto», continua lo zoologo. «Non si tratta di un semplice caso di “problem solving” perché si genera nell’animale una violazione dell’aspettativa. Quello che volevamo vedere era il cambio comportamentale del gatto, se a questo punto avrebbe chiesto l’aiuto ad un umano. I gatti sono animali generalmente solitari quando hanno un problema da risolvere e questo li rende più persistenti, ad esempio, dei cani o di altri felidi che cooperano in branco come i leoni, ma non significa che non siano animali sociali, in grado di comunicare tra loro anche a distanza».
Sorprendentemente, però, la volontà di interazione con gli esseri umani è risultata la stessa tra i gruppi di gatti indoor e roaming. Quello che è, invece, si è rivelato diverso è il tempo di interazione. «I gatti indoor – racconta D’Aniello – hanno interagito più tempo con l’apparato nella fase impossibile, mentre il gruppo roaming ha perso interesse subito dopo aver capito che il compito non era risolvibile. Questo forse è dovuto al fatto che i gatti liberi di andare in giro sperimentano più problemi durante la loro vita. Inoltre, questi hanno mostrato comportamenti di stress prima rispetto ai gatti che vivono in casa, ma la spiegazione è semplice: non è possibile rilevare segnali di stress prima che il gatto smetta di interagire con l’apparato, perché questi non sono sovrapponibili. Quindi i gatti roaming che passano meno tempo a cercare di risolvere l’apparato esibiscono prima questi segnali».
Sembra che i gatti liberi di scorrazzare siano quindi meno propensi a “perdere tempo” con qualcosa che capiscono essere impossibile da risolvere. Lasciare un gatto libero, però, oltre ad essere un rischio per l’avifauna, riduce notevolmente la sua aspettativa di vita, ci spiega lo zoologo. Lo stile di vita dei gatti può quindi influenzare il loro approccio alla risoluzione dei problemi senza incidere sulla loro volontà di interagire con gli esseri umani o sul loro benessere generale. «L’arricchimento ambientale materiale e sociale potrebbe essere utile per migliorare il benessere dei gatti domestici – conclude D’Aniello – ma vanno effettuati studi futuri su questo argomento».