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22 Febbraio 2023
15:19

I fossili più importanti dell’evoluzione umana

Lo studio della storia della nostra famiglia non è stato semplice, a causa della scarsità di reperti. Vediamo quali sono i principali fossili che ci hanno permesso di delineare l'evoluzione umana.

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La storia evolutiva dei mammiferi che si è sviluppata soprattutto durante il Cenozoico ha portato alla diversificazione di molti ordini animali, tra cui quello dei primati a cui apparteniamo. Lo studio specifico del ramo della nostra famiglia non è stato inizialmente semplice, per via dello scarso numero di fossili dell'evoluzione dell'uomo. Ad essere stati trovati, infatti, sono stati solo poco più di un centinaio di reperti, spalmati in circa 10 milioni di anni di evoluzione, tanto che a differenza di altri animali, oggi disponiamo molte meno informazioni inerenti l'evoluzione della nostra specie rispetto a quella dei dinosauri.

Viste le poche informazioni disponibili, i paleontologi e gli antropologi fisici hanno così trascorso l'ultimo secolo e mezzo nel tentativo d'individuare fra i reperti un maggior numero di fossili possibile per ricostruire il cosiddetto "cespuglio evolutivo umano", ovvero l'albero genealogico di quelle specie che seppur non possono essere considerate dirette antenate della nostra, hanno contribuito comunque all'evoluzione dell'ordine dei primati e degli esseri umani in generale. Un esempio famoso fra queste specie è il parantropo, che seppur non direttamente inserito nel nostro ramo dell'albero, ci ha aiutato comunque a comprendere la storia evolutiva degli ominidi e indirettamente quella dell'uomo.

Per quanto rari, molti degli ominidi appartenenti a questo gruppo sono tra  i reperti fossili più ambiti dai paleontologi, poiché hanno permesso nel tempo di chiarire quale sia stato il percorso evolutivo che ha portato animali arboricoli simili esteticamente a scoiattoli e toporagni a divenire fra gli animali più longevi, caratteristici e dotati di grandi capacità cognitive che si siano mai osservati sulla Terra. Ci hanno permesso, inoltre, di inserire la nostra specie all'interno del contesto naturale di tutte le altre forme viventi, diventando un vero punto di congiunzione fra noi e tutti gli altri primati oggi presenti.

Quali sono però i reperti più importanti che ci hanno permesso di comprendere al meglio il nostro cammino evolutivo? E dove sono stati ritrovati? Quest'articolo è pensato proprio per offrire una risposta a queste domande e nei prossimi paragrafi presenteremo le specie più importanti, seguendo un ordine rigorosamente cronologico, frutto dalla datazione dei reperti.

Australopithecus anamensis 

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L'Australopithecus anamensis non sarà tra i ritrovamenti più conosciuti dal pubblico, ma è stato fondamentale quando Bryan Patterson nel 1965 trovò il primo esemplare, noto come KP 271, a Kanapoi in Kenya.

Quello che rende infatti particolare questa specie è che fra tutte quelle appartenenti al gruppo delle australopitecine –  il gruppo estinto di ominidi da cui deriva la linea evolutiva principale dei primati che porta all'essere umano – fu la seconda ad essere scoperta e anche la più antica. A. anamensis presenta infatti caratteristiche morfologiche riconducibili a quelle delle popolazioni umane successive e per questa ragione il suo ritrovamento fu considerato essenziale, poiché era il primo reperto appartenuto a una specie più simile a noi che agli altri primati della sua epoca. Per esempio, a differenza di altre sue specie sue contemporanee, dispone di ossa che riconducono ad una postura eretta e la stessa forma dei denti ricorda molto quella degli ominini comparsi successivamente.

Vissuto durante il Pliocene tra i 4,17 e i 4,12 milioni di anni, l'olotipo della specie fu principalmente classificato a partire da pochi denti e dall'epifisi (l'estremità bassa) dell'omero sinistro di un braccio. E per quanto questi pochi reperti possano sembrare insufficienti per identificare una nuova specie, in realtà permisero di capire che si trattava di una forma già abbastanza slegata dalle fronde degli alberi e capace di assumere un portamento eretto, grazie al bipedismo non obbligato.

Successivi reperti ritrovati in Africa, l'ultimo delle quali è avvenuto nel 2006, hanno confermato questa teoria, supportando anche l'ipotesi che potesse rappresentare il progenitore di molte delle specie di australopiteco che sono comparse successivamente. La specie però prese questo nome e fu definita anamensis solo a partire dal 1995, quando il gruppo di ricerca della famosa antropologa Meave Leakey notò delle differenze sottili tra i ritrovamenti appartenute all‘Australopithecus afarensis e agli esemplari che poi successivamente sarebbero confluiti in anamensis. Prima, infatti, del cambio di nome, l'olotipo della specie veniva infatti considerato un A. afarensis dotato di caratteristiche particolarmente arcaiche.

Appurato che si trattava di una seconda specie, Leakey assegnò invece a questi fossili il nome specifico di anamensis, da "anam" che in lingua Turkana significa "lago".

Australopithecus afarensis

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Se la scoperta dell'A. anamensis fu considerata fondamentale, la prima vera specie capace di rivoluzionare l'antropologia fisica, la cui scoperta ebbe un'elevata risonanza internazionale, fu quella dell'Australopithecus afarensis, a cui appartiene il famoso scheletro di Lucy.

Lucy, o meglio il ritrovamento identificato con il codice A.L. 288-1, fu scoperto nel 1974 in Etiopia da due famosi paleoantropologi – Donald Johanson e Tom Gray – vicino al villaggio di Hadar, nella regione di Afar. Si narra che durante il ritrovamento i due scienziati stessero sentendo la canzone Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles e che proprio dal suo titolo deriverebbe il nome del fossile.

Questa specie colpì molto di più la mente degli studiosi dell'epoca, poiché a differenza dei ritrovamenti precedenti lo scavo aveva rifornito gli scienziati di uno scheletro parzialmente completo, che permetteva di studiare meglio le sua ossa, la sua postura, il bipedismo, per non parlare della sua intelligenza e della dieta.

A. afarensis era un'australopitecina più simile a noi, rispetto ad A. anamensis. Era infatti capace di mantenere la postura eretta per più tempo, possedeva un cranio più sviluppato, aveva degli arti che in generale, per quanto ancora scimmieschi, avevano una proporzione rispetto al corpo più simile alla nostra rispetto a quello delle grandi scimmie e disponeva infine di un bacino tipico di una specie abituata alla marcia. Caratteristiche che i successori avrebbero mantenuto, fino a giungere a noi.

La specie visse tra 4 e 3 milioni di anni fa in tutta l'africa orientale, presso i territori in cui è presenta la Rift valley.

Australopithecus africanus

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Secondo molti storici della disciplina, è grazie alla scoperta del Bambino di Taung nel 1924 in Sudafrica se oggi l'antropologia è divenuta una scienza molto in voga in Africa e se è possibile conoscere buona parte dell'albero filogenetico umano. Prima infatti che l'Australopithecus africanus venisse scoperto accidentalmente da un operaio che lavorava in una cava di pietra, buona parte dell'opinione pubblica e della scienza riteneva che l'origine della nostra specie e dei nostri antenati fosse da ricercarsi in Oriente, presso quella che all'epoca veniva chiamata Indocina.

Erano pochissime le prove che contrastavano l'opinione dominante e per quanto già all'inizio del Novecento gli scienziati fossero a conoscenza di un gran numero di reperti fossili di scimmie in Europa e in Africa, nessuno degli esperti del tempo sospettava che l'Africa rappresentasse il vero Eden del nostro genere e dei nostri antenati.

Il bambino di Taung cambiò tutto, come un fulmine a ciel sereno, dimostrando tra l'altro di avere una capacità cranica – per quanto infantile – molto più elevata rispetto a quanto prognosticato, raggiungendo i 405 cm³ di volume.

La specie visse dai 3 ai 2 milioni di anni fa e secondo le moderne ricostruzioni paleogeografiche, visse più a sud rispetto ad afarensis. Secondo alcuni studi, potrebbe inoltre essere stata anche una sua versione "aggiornata", avendo un un cranio dalla forma più umana e dall'aspetto più moderno. Tuttavia, secondo il famoso antropologo Lee Berger, che ha studiato l'articolazione del ginocchio di molteplici esemplari di A. africanus, la specie avrebbe avuto un portamento moto più simile a quello delle scimmie antropomorfe e questo porterebbe a pensare che seppur più moderno, fosse meno evoluto rispetto ad A. africanus.

Homo habilis

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Homo habilis, per quanto storicamente ritenuto il primo appartenente del nostro genere, secondo una revisione antropologica ancora in corso risulterebbe una forma intermedia che congiungerebbe le antiche australopitecine con i veri appartenenti al genere Homo. Dispone infatti di moltissime caratteristiche comuni di entrambi i generi, tanto che per via del suo essere un mosaico, all'inizio Jonathan Leakey – il capostipite della famosa famiglia di antropologi – lo definì "il più arcaico fra gli uomini" perché era ancora molto scimmiesco.

Proprio per via della sua natura ibrida, ultimamente parte dell'equipe che effettuano scavi in Africa ritengono che fosse una specie più evoluta di australopiteco, che aveva cominciato a predisporre il proprio organismo ad adattarsi ad un ambiente sempre più aperto e minaccioso – ancora più aperto delle savane in cui scorrazzavano gli afarensis. Inoltre risultava essere in grado di manipolare oggetti più complessi, tanto che la sua mano risultava così umana che Leakey lo chiamò "abile" per via della sua presupposta capacità di produrre i primi reperti litici, tra cui i chopper.

Fu scoperto il 4 novembre 1960 presso la Gola di Olduvai, in Tanzania e visse dai 2,4 ai 1,44 di milioni di anni fa.

 Paranthropus boisei

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Le due specie molto simili fra di loro di parantropo, ma soprattutto l'esemplare noto come Nutcracker Man, appartenuto alla specie boisei, sconvolsero gli antropologi a cavallo dei primi anni 60, poiché dimostrarono come sarebbe potuta essere l'evoluzione umane se i nostri antenati avessero basato le proprie chance di sopravvivenza non sullo sviluppo del cervello e dell'intelligenza, ma su una dieta coriacea, formata da vegetali molto fibrosi che necessitavano di mandibole e denti molto grossi e spessi per essere masticati. Oggi sappiamo che i parantropi invero erano anche capaci di cacciare e di mangiare la carne, ma per buona parte del nostro tempo li abbiamo considerati dei potenziali "uomini gorilla", che si estinsero per colpa del cambiamento climatico – che spazzò via le piante di cui si nutrivano – e della competizione sempre più crescente con gli australopiteci e le prime forme veramente umane.

Venne identificato nel 1959 da Mary Leakey, che notò subito le somiglianze con gli esseri umani, definendolo "para" "anthropus", ovvero simile all'uomo. Fu trovato sempre presso le Gole di Olduvai, dove successivamente avrebbero trovato H. habilis, ma a differenza di quest'altra specie, sembrerebbe che i parantropi si estinsero senza partecipare al resto dell'evoluzione umana. Sarebbero in pratica un ramo morto del nostro albero della vita, per quanto risultino molto affascinanti per molti paleoantropologi, da sempre innamorati dalle loro dimensioni massicce e dall'essere per gran parte della dieta vegetariani.

Entrambe le specie parantropo vissero comunque da 2,6 a 1,2 milioni di anni fa, anch'essi nell'Africa orientale in compagnia delle altre specie di australopitecine, da cui sembrano derivare.

Homo erectus

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Quando si parla di H. erectus, bisogna ricordare anche il Pitecantropo e l'Uomo di Giava. 

La sua scoperta risale infatti al lontano 1891, presso al giacimento di Trinil dell'isola di Giava. Assieme a Neanderthal, questa è l'unica specie ad essere stata scoperta e definita – per quanto a sommi capi – durante il corso dell'Ottocento. Eugène Dubois fu il suo scopritore, che fra tutti gli antropologi di questo fine secolo risulta essere forse fra i più suggestivi e controversi. Fu infatti il primo antropologo a basare la sua intera carriera scientifica sullo studio meticoloso di tutti i reperti di origine e provenienza umana e fu colui che per primo si impose nel dibattito sull'origine della nostra specie dopo Darwin.

Convinto sostenitore che la nostra specie fosse derivata da forme ancestrali di origine asiatica, si spinse in Asia alla ricerca del fantomatico "anello mancante", che avrebbe connesso direttamente la nostra specie al gruppo delle grandi scimmie. Gli sembrò di averlo identificato nel cranio scoperto a Giava, che da lì a poco assunse fama internazionale poiché visivamente molto più simile ai moderni esseri umani rispetto alle scimmie europee che erano state scoperte fino a quel momento.

Le sue scoperte portarono nuovi ricercatori a setacciare l'intero continente asiatico per rinvenire nuovi reperti, che si svelarono nel 1923, quando Birgir Bohlin trovò presso Zhoukoudian, nelle vicinanze di Pechino, un nuovo esemplare, a cui Bohlin diede il nome di Pithecanthropus erectus.

Successivamente ci si accorse che questi due reperti appartenevano invero al nostro stesso genere, ma che erano molto più antichi rispetto a quanto si credette all'epoca. Questa specie presenta in realtà degli antenati africani che prendono il nome di H. ergaster, che sono molto simili.

Escluso l'Homo sapiens arcaico, gli antropologi ritengono che H. erectus sia stato la specie di maggior successo della storia fra tutti i nostri antenati. Infatti si spinse fino al sud est asiatico, partendo dall'Africa centrale, e conquistò anche l'Europa e le isole indonesiane. Fu un grande esploratore ed inventore, in quanto è a lui che vengono riconosciute "l'invenzione del fuoco", delle prime lance (fatte probabilmente di bambù), di gran parte dei reperti litici umani e secondo alcuni persino delle prime – molto instabili e fragili – barche.

Lavorava esclusivamente con la pietra ed era un ottimo cacciatore. Non era però un abile artista e sconosceva probabilmente il concetto di vestito, seppur fantasiose ricostruzioni a volte lo riprendono con delle gonnelline intrecciate di paglia.

Finora, è la specie più longeva che abbia mai calcato il suolo terrestre. Comparso infatti 2 milioni di anni fa, secondo alcune ricostruzioni alcune sue popolazioni si estinsero definitivamente solo all'alba dell‘espansione sapiens.

Gigantopithecus

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Il Gigantopithecus non è strettamente imparentato alle specie umane, ma come il parantropo ha colpito così tanto l'immaginazione degli antropologi da essere entrato nel mito, oltre che all'interno della cultura scientifica. Era un parente prossimo dei moderni gorilla e oranghi, ma a differenziarlo da queste due scimmie antropomorfe erano le dimensioni. In una sola parola, gigantesche!

Per quanto disponiamo di pochi reperti, alcuni scienziati ritengono infatti che potesse raggiungere l'altezza di 4 metri e il peso di 320 chili. Convisse inoltre con H. erectus in Cina fino a 0,3 milioni di anni fa e i suoi ritrovamenti hanno ispirato il mito dello Yeti  e creato il fenomeno mediatico di King Kong.

Quando fu riscoperto in Cina dalla scienza nel 1956, gli stessi paleontologi che lo trovarono credettero ad uno scherzo e che qualcuno avesse sepolto dei falsi reperti per prenderli in giro. Per nostra fortuna, il ritrovamento era reale e per quanto facesse paura, probabilmente non era neppure così cattivo come immaginato dal cinema moderno. Era sì onnivoro, ma molto probabilmente passava la maggioranza del tempo a cercare frutta e foglie all'interno della foresta.

Homo neanderthalensis

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Del nostro cugino Neanderthal ormai sappiamo molto. Si tratta della prima specie esterna ai sapiens appartenente al genere Homo che è stata trovata, presso la valle di Neander in Germania.

Fisicamente simile a noi, solo molto più robusto e con una capacità cranica leggermente superiore, questa specie sopravvisse in Europa durante l'era glaciale, sviluppando molti comportamenti complessi, che vanno dalla caccia di gruppo allo sviluppo di armi più efficaci, dai primi tentativi di produrre un vestiario, per proteggersi dal freddo, all'invenzione della cura dei morti.

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Disponiamo di un maggior numero di reperti fossili di questa specie, rispetto a quelle precedenti. Oltre a quelli provenienti dalla valle di Neander, abbiamo i reperti provenienti dalla Francia, dalla Spagna, ma anche dall'Italia, come quelli di Altamura e del Circeo, e quelli che provengono da Israele e l'Asia minore.

Osservando alcuni di questi crani, è possibile capire bene quanto si siano adattati nel resistere alle condizioni proibitive dell'era glaciale. I zigomi e l'area sopra orbicolare in particolare ci permettono di capire quanto risultassero corazzati.

Proprio per via di queste caratteristiche evolutosi per difendersi dal gelo, i Neanderthal risultavano più bassi rispetto a noi sapiens, ma probabilmente erano anche più massicci e forti di noi. Non erano però i trogloditi che alcuni li accusarono di essere. Negli ultimi tempi, nuovi reperti hanno dimostrato che tenevano molto al concetto della famiglia e che si prendevano cura di bambini e anziani.

Secondo ricerche paleogenetiche, ormai è provato che parte del loro genoma sia stato trasmesso alle popolazioni europee, tramite fecondazione incrociata con la nostra specie. Questa scoperta ha permesso Svante Paabo di vincere il Nobel della medicina nel 2022 ed è stato possibile tramite l'uso di alcune ossa, prelevate all'interno di grotte molto profonde, che sono state sbriciolate per estrarne il DNA.

Homo naledi

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Ci sono molte ragioni che spingono a definire la scoperta di Homo naledi sorprendente. Innanzitutto, nessuno credeva che circa 236.000 anni fa potesse esistere un'altra specie appartenente al genere Homo in Sudafrica, contemporaneamente alla comparsa dei sapiens. Poi è stato incredibile il modo con cui questa specie è stata riportata alla luce.

Rinvenuta nel 2013 nelle Rising Star Cave, gli esemplari appartenenti a questa specie sarebbero infatti morti all'interno di un complesso sistemo di caverne, che è stato molto difficile raggiungere. Gli scavi infatti sono avvenuti solo grazie a giovani antropologhe molto minute, capaci di inoltrarsi per decine di metri dentro tunnel molto claustrofobici, avendo a disposizione solo l'ausilio di alcune corde, torce e di robot per recuperare i fossili contenuti all'interno delle caverne, colme anche di detriti appartenenti ad altri animali.

Incredibile è stata anche la partecipazione di un'equipe internazionale di speleologi e antropologi, che hanno accompagnato le fasi di scavo e di studio del reperto. Tanto che l'estrazione delle ossa di H. naledi risulta essere stata fra le prime a divenire un evento mediatico, grazie all'uso dei social.

La comprensione di questa specie non è ancora definitiva, ma è possibile leggere il resoconto della spedizione tramite il libro "Il mistero di Homo naledi" di Damiano Marchi, antropologo italiano che ha partecipato alla classificazione della specie.

Homo floresiensis 

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Ancora più imprevista e sconvolgente è stata la scoperta dell'uomo dell'isola di Flores, noto ai più come "l'uomo Hobbit".

Nel settembre del 2003, una equipe di antropologi indonesiani e australiani avrebbe infatti scoperto una grotta sull'isola di Flores in cui erano presenti i resti di una specie nana di Homo, che sopravvisse nell'isole dell'Indonesia in un periodo compreso tra circa 190.000 e 12.000 anni fa. Ovvero fin oltre all'arrivo dei sapiens in Australia.

La convivenza delle due specie in un territorio così particolare come l'arcipelago indonesiano spinse molti ricercatori a credere che i reperti fossero dei falsi o il prodotto di alcune patologie ipofisarie. Queste supposizioni però furono del tutto smentite, quando gli antropologi dimostrarono che i reperti appartenevano a degli adulti sani.

Per via delle dimensioni e del successo della trilogia cinematografica di Peter Jackson de "Il signore degli anelli" durante quegli anni, che proprio nel 2003 vide l'uscita de "Il ritorno del Re", la specie ricordò subito le creature fantastiche inventate da Tolkien ed è per questa ragione se si cominciò a definire hobbit questi esseri umani.

Per quanto riguarda l'origine della specie, risulta ancora molto controversa. Secondo alcuni scienziati, Homo floresiensis deriverebbe da popolazioni relitte di H. erectus adattatisi alla vita insulare, fino a subire il nanismo insulare che colpì, per esempio, anche nello stesso periodo gli antichi elefanti nani siciliani (Palaeoloxodon falconeri), oggi esposti tra l'altro al Museo Geologico G. G. Gemmellaro del Sistema Museale di Ateneo dell' Università di Palermo.

L'Homo di Denisova

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È possibile classificare una nuova specie, partendo da pochi reperti che potrebbero essere rinchiusi sul palmo di una mano? Sì, se tu sei un futuro premio Nobel e se per nome fai Svante Paabo.

L'uomo di Denisova è stato scoperto nel 2010 all'interno di una grotta nei Monti Altaj in Siberia. I suoi resti erano riconducibili a pochi denti e a un osso del piedi, che risalivano a circa 70.000 e 40.000 anni fa. Ha ottenuto fama internazionale perché tramite la tecnologia del DNA antico, Paabo è riuscito a sequenziare il suo genoma e a scoprire che molto probabilmente era una differente specie di Homo, che convisse per molto tempo con i Neanderthal in Europa orientale e con i Sapiens in Asia centrale e meridionale.

Tra l'altro come fatto per i Neanderthal, Paabo ha cercato di comprendere se parti del genoma di Denisova sono presenti all'interno della popolazione umana. E in effetti i test che mettano in comparazione il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti Homo sapiens hanno dimostrano che dal 4 al 6% del genoma dei popoli Melanesiani derivano dall'antica specie estinta di Denisova.

Questo ci permette di comprendere come verso sul finire della Preistoria, potenzialmente ben 5 specie umane erano presenti sulla Terra, intenti nel contendersi il controllo del territorio e delle risorse. Denisova secondo le ultime stime potrebbe anche essere una specie che si è evoluta da antiche popolazioni relitte di Homo erectus.

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Sono laureato in Scienze Naturali e in Biologia e Biodiversità Ambientale, con due tesi su argomenti ornitologici. Sono un grande appassionato di escursionismo e di scienze e per questo ho deciso di frequentare un master in comunicazione scientifica. La scrittura è la mia più grande passione.
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